Straw – La Recensione del nuovo film drammatico di Netflix

ATTENZIONE: il presente articolo potrebbe contenere spoiler su Straw. Straw – Senza uscita, ultima fatica di Tyler Perry disponibile su Netflix dal 6 giugno, è un film che punta a scuotere, indignare, commuovere. E in questo senso, non lascia indifferenti. Vuole essere tante cose insieme. Forse troppe. Un dramma sociale, una denuncia politica, un thriller… Leggi di più »Straw – La Recensione del nuovo film drammatico di Netflix The post Straw – La Recensione del nuovo film drammatico di Netflix appeared first on Hall of Series.

Jun 9, 2025 - 20:05
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Straw – La Recensione del nuovo film drammatico di Netflix

ATTENZIONE: il presente articolo potrebbe contenere spoiler su Straw.

Straw – Senza uscita, ultima fatica di Tyler Perry disponibile su Netflix dal 6 giugno, è un film che punta a scuotere, indignare, commuovere. E in questo senso, non lascia indifferenti. Vuole essere tante cose insieme. Forse troppe. Un dramma sociale, una denuncia politica, un thriller emotivo. E affonda le mani in alcune delle ferite più profonde dell’America contemporanea: la povertà sistemica, il razzismo istituzionale, la violenza burocratica, l’abbandono dei più fragili.

Perry, autore prolifico e spesso divisivo, si cimenta qui con un tentativo ambizioso. Costruire un racconto d’assedio morale in cui la tensione individuale si fonde con quella collettiva. C’è il desiderio di raccogliere l’eredità di un certo cinema civile americano, quello che negli anni ’70 e nei primi 2000 metteva in scena l’individuo comune che perde il controllo in risposta a un sistema disumano. C’è l’intenzione, più che palese, di parlare non solo di America, ma all’ America.

E per certi versi ci riesce. Straw colpisce forte, spinge sull’acceleratore della rabbia e della frustrazione, costruisce un personaggio principale complesso e viscerale. Ma proprio nel suo slancio narrativo, spesso eccessivo, il film mostra anche i limiti di un certo cinema urgente che, nel voler essere tutto insieme, rischia di diventare troppo. I suoi momenti più intensi convivono con altri caricaturali o retorici; i colpi di scena con le forzature. Straw – Senza uscita vuole denunciare un sistema malato, ma lo fa utilizzando il martello quando avrebbe dovuto usare uno scalpello per essere più incisivo.

Straw: una madre sola contro il mondo

Al centro del film c’è Janiyah, interpretata da una straordinaria Taraji P. Henson, una madre single travolta da una spirale di disgrazie che sembra orchestrata apposta per annientarla. In meno di venti minuti, il film le toglie ogni illusione: sfratto imminente, licenziamento improvviso, la minaccia dei servizi sociali, un incidente con un poliziotto razzista, una rapina fuori controllo. Tutto precipita rapidamente, in una sequenza di eventi tanto drammatica da sembrare programmata per schiacciarla.

Questa costruzione non è casuale. Infatti, il regista cerca di rappresentare la fragilità estrema di chi vive ai margini, dove basta un singolo errore, un solo giorno storto, per perdere tutto. L’intensità emotiva è palpabile, ma il rischio è altrettanto evidente. L’eccesso si trasforma in artificio narrativo, più che in rappresentazione autentica. La sceneggiatura, pur potente in alcuni passaggi, appare troppo spesso sbilanciata, caricaturale, programmaticamente oppressiva. L’empatia verso Janiyah, figura complessa e sofferente, viene ricercata attraverso scorciatoie emotive, piuttosto che tramite un reale approfondimento psicologico. È un cinema della compressione, dove tutto preme addosso, ma raramente respira.

Il cuore del film: Taraji P. Henson

Janiyah si sveglia. La sua più drammatica giornata sta iniziando su Straw
Credits: Netflix

Eppure, in mezzo a questo impianto narrativo farraginoso, qualcosa funziona davvero: la prova attoriale di Taraji P. Henson, troppo spesso sottovalutata. L’attrice, candidata nel 2009 come miglior attrice non protagonista agli Oscar, regge l’intero film sulle sue spalle, dando corpo e voce a una donna alla deriva, dilaniata tra la disperazione e la voglia di proteggere sua figlia. Le sue scene più crude sono anche le più vere: non c’è mai un momento di artificio, nemmeno quando la situazione si fa surreale. Ogni sguardo, ogni singhiozzo, ogni urlo sembra provenire da un dolore reale, profondo.

Accanto a lei, Teyana Taylor dà vita a una detective empatica e credibile, capace di guardare oltre l’apparenza criminale della protagonista. Il suo personaggio introduce una nota di umanità che manca ad altre figure secondarie, spesso ridotte a semplici pedine del sistema.
Anche Sherri Shepherd, nei panni di Nicole, la direttrice della banca, dà una interpretazione più che accettabile, rendendo le scene con Taraji P. Henson credibili, nonostante una certa retorica un po’ troppo confezionata.

Straw: tra retorica e tensione

L’atmosfera claustrofobica e nervosa è forse uno degli aspetti meglio calibrati del film. L’ansia che accompagna la protagonista si trasmette quasi fisicamente allo spettatore, amplificata da una regia che alterna strette inquadrature, spazi angusti e un montaggio serrato. La sequenza centrale ambientata in banca, con Janiyah alle prese con ostaggi, telecamere di sorveglianza, forze dell’ordine e pressioni sempre più forti, è costruita per tenere lo spettatore con il fiato sospeso. E ci riesce. Fino a un certo punto. È una scena d’impatto, che unisce adrenalina e disperazione, e che rappresenta il punto di massima tensione emotiva del film.

Tuttavia, proprio nei momenti in cui il film sembra trovare un equilibrio tra spettacolo e denuncia sociale, la narrazione si appesantisce. La tensione cede progressivamente il passo alla retorica. L’urgenza politica, che inizialmente vibra sottotraccia nella disperazione quotidiana, nei dettagli della vita di Janiyah, nei gesti invisibili di una società che esclude, viene progressivamente tradotta in dichiarazioni didascaliche, monologhi esplicativi, cartelli verbali. Le denunce alla sanità precaria, al razzismo sistemico, alla disumanità delle istituzioni diventano quasi un elenco, un prontuario delle ingiustizie americane.

Sono tutte tematiche fondamentali che il regista e sceneggiatore conosce bene. Ma invece di integrarle nella carne viva della storia, le estrae e le espone. Le trasforma in segnaletica, non in sostanza. Così, al posto della complessità, arriva la semplificazione; al posto dell’ambiguità morale, la presa di posizione netta, indiscutibile, ma spesso troppo esplicita per colpire davvero.

Il problema non è la politicizzazione del racconto ma la maniera con la quale viene fata. In Straw – Senza uscita, la rabbia non si traduce in ambivalenza, ma in messaggio martellante. Le contraddizioni vengono espunte in favore di una tesi chiara, a tratti urlata. La protagonista diventa simbolo prima che persona, e così anche il conflitto centrale si svuota della sua dimensione più tragica e umana.

Il risultato è che la tensione, invece di crescere, si appiattisce. Perché quando tutto è già detto, non resta nulla da scoprire. Il rischio è quello che le denunce si trasformino in slogan più che in riflessioni, riducendo la forza del discorso politico che il film vorrebbe portare avanti. Ed è proprio in questo scarto tra intenzione e forma che Straw inciampa: quando vuole far pensare, spesso finisce per spiegare. E quando spiega troppo, smette di far sentire.

Un finale che cambia prospettiva

Nicole, in primo piano, gestisce la banca che viene rapinata
Credits: Netflix

Il finale di Straw – Senza uscita tenta il colpo a sorpresa: una rivelazione improvvisa rovescia completamente la prospettiva con cui lo spettatore ha seguito la vicenda. È un twist che modifica il senso dell’intera narrazione, introducendo un elemento di ambiguità che obbliga a rileggere tutto ciò che è accaduto fino a quel momento. Il film, fino ad allora fortemente ancorato all’angoscia reale di una madre allo stremo, diventa improvvisamente qualcos’altro. Una riflessione sul potere del racconto, sulla manipolazione della verità e sul ruolo che i media (e forse anche il cinema stesso) giocano nel costruire le percezioni collettive.

Da questo punto di vista, la scelta di Perry è interessante: suggerisce che la realtà, soprattutto quella raccontata, non è mai neutra. C’è una sottile ironia nel modo in cui la verità si dissolve, lasciando emergere un’altra versione dei fatti. È un gesto che ricorda certi finali destabilizzanti dove il non sapere è più importante del sapere, e la realtà si sfalda sotto il peso delle sue interpretazioni.

Tuttavia, proprio questa svolta rischia di compromettere l’impianto emotivo su cui il film si era retto. Per quasi tutta la durata, Straw ci chiede di empatizzare con Janiyah, di condividere la sua rabbia, la sua paura, il senso di ingiustizia. Il film crea una tensione forte tra pubblico e protagonista, fondata sulla compassione e sull’immedesimazione. Quando però questa connessione viene smontata all’improvviso, lo spettatore si trova spiazzato non in senso produttivo, ma in quello più frustrante: viene privato retroattivamente dell’autenticità dell’esperienza. Il dolore di Janiyah e quello di chi guarda sembra diventare un semplice espediente narrativo, qualcosa da manipolare a piacimento.

…Forse persino troppo

Il colpo di scena, più che ampliare la riflessione, rischia di rivelare l’artificio: quello che sembrava un grido disperato si trasforma in un meccanismo, e l’effetto catartico viene annullato. Si ha la sensazione che Perry voglia redimere un personaggio che però non ha mai avuto uno spessore psicologico reale. In questo modo, la svolta finale, pur costruita con coerenza visiva, si rivela più distruttiva che rivelatrice. Non aggiunge significato, ma lo sottrae. E lo fa nel momento peggiore: quando lo spettatore, ormai emotivamente coinvolto, cerca risposte e riceve invece una smorfia ambigua, quasi cinica.

Il finale di Straw è un azzardo che, pur partendo da un’intuizione teoricamente potente, finisce per disinnescare il senso stesso del film. La denuncia politica si dissolve, la tensione morale si attenua, e ciò che rimane è una domanda inquietante ma sterile: era tutto vero o era solo una messinscena? E se anche fosse, che cosa ci ha lasciato davvero?

Straw: i grandi modelli difficilmente imitabili

Lo sguardo preoccupato e attento della dtective Raymond
Credits: Netflix

Domande complesse, senza facili risposte. Anche perché Perry si prende la briga di citare grandi classici. E la loro lunga ombra grava, inevitabilmente, su questo film. Il regista sembra voler evocare l’eco di film come Quel pomeriggio di un giorno da cani, Un giorno di ordinaria follia, John Q. Opere in cui la ribellione individuale diventava specchio di un disagio collettivo, in cui il gesto estremo nasceva da una tensione morale autentica, mai ridotta a semplice reazione emotiva.

Anche qui c’è una persona comune spinta all’estremo, una società che non ascolta, un sistema che schiaccia. Ma l’impressione è che questi riferimenti, per quanto evidenti, non trovino mai un vero sfogo. Aleggia su tutto il film una domanda implicita: può Straw davvero essere all’altezza di quei modelli? E la risposta sembra essere no. Non per mancanza di intenzioni, ma per mancanza di visione. Perry tenta la via del cinema civile, ma ne imita le forme senza coglierne davvero la sostanza: la costruzione graduale del conflitto, l’ambiguità etica, il sottotesto politico che non si limita a denunciare, ma ci interroga.

Il risultato è un film che ambisce a molto ma si ferma prima di arrivare. La tensione c’è, ma non sempre è organica. La rabbia è vera, ma spesso è più narrata che vissuta. Il dolore è mostrato, ma raramente elaborato. Straw si muove su un crinale instabile: vuole essere riflessione e shock, denuncia e thriller, cinema sociale e tragedia personale. Ma ogni elemento, invece di rafforzare l’altro, finisce per diluirne la forza. E quando, nel finale, la narrazione si spacca su se stessa, non esplode: collassa.

Un grido che non diventa un’eco

Alla fine, ciò che resta è una madre sofferente e un film che vuole farci indignare, ma non riesce a farsi comprendere davvero. Straw – Senza uscita non si dimentica facilmente. Forse non per i motivi che sperava. È un’opera intensa, volutamente disturbante, che punta a scuotere, ma nel voler dire troppo finisce per dire poco. L’urgenza che la muove è autentica, ma il linguaggio che sceglie per esprimerla è spesso troppo schematico per lasciarci qualcosa di duraturo.

Il dolore rimane, la tensione anche, ma il pensiero no. Non si metabolizza ciò che non è stato pienamente articolato. E questo, per un film che vuole chiaramente essere politico, è forse il limite più grande.
Rimane, però, una prova memorabile di Taraji P. Henson, che riesce a dare profondità e verità a un personaggio che rischiava di restare simbolico. È lei, più della scrittura, a farci credere che tutto ciò possa accadere davvero. Il suo grido, sì, resta nell’aria. Ma fatica a diventare eco.


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