Big Fish si racconta: «Il segreto non è l’umiltà, ma l’originalità»
“Big Fish do you speak English?” cantava Fibra nel 2009. A distanza di oltre trent’anni di carriera come produttore e una miriade di classici senza tempo nel rap italiano, possiamo dire che Fish forse ai tempi non conosceva l’inglese, ma oggi sa bene qual è il metodo per fare buona musica. Anzi. Il “Me.To.Do”. Massimiliano […] L'articolo Big Fish si racconta: «Il segreto non è l’umiltà, ma l’originalità» sembra essere il primo su Parkett.
“Big Fish do you speak English?” cantava Fibra nel 2009. A distanza di oltre trent’anni di carriera come produttore e una miriade di classici senza tempo nel rap italiano, possiamo dire che Fish forse ai tempi non conosceva l’inglese, ma oggi sa bene qual è il metodo per fare buona musica. Anzi. Il “Me.To.Do”.
Massimiliano Dagani, in arte Big Fish: una carriera alle spalle talmente importante da far sfigurare ogni artista o producer dei tempi moderni. Per sua stessa ammissione, non un polistrumentista alla ricerca del vezzo di forma, ma un vero e proprio amante della musica che ha fatto della voglia di scoprire e di sperimentare il vero marchio di fabbrica.
Un modus operandi che lo ha portato a firmare grandi hit, sia nel mondo rap che in quello pop. Ed è proprio questa sete di conoscenza che lui punta a trasmettere nel nuovo suo corso per producer “Me.To.Do”. Come vedremo, un percorso che vuole giocare sul binomio lingua italiana-inglese e che racconta il “metodo” utilizzato dal produttore per realizzare grandi classici.
Abbiamo parlato con Fish allungo: dall’evoluzione del ruolo del produttore al rapporto con gli artisti, dalla nostalgia per l’epoca del campionatore alla necessità di una costante ricerca di originalità e autenticità. Big Fish condivide le sue riflessioni con la schiettezza e la profondità che fanno di lui una leggenda della musica italiana.
Un dialogo che non solo racconta un percorso professionale unico, ma si interroga su cosa significhi davvero “fare musica” in un mondo musicale saturo di offerta e in costante trasformazione.
Una carriera di oltre trent’anni. Cosa significa essere produttori nel 2024/2025 con il digitale che avanza e l’intelligenza artificiale.
Complimenti per la domanda perché mi hai preceduto, nel senso che comunque il tuo essere attento a quello che sta succedendo ti porta a capire anche che probabilmente la figura del produttore in sé stessa scomparirà, perché il produttore ormai deve essere più un sarto che una persona al servizio dell’artista.
Io vedo adesso che i ragazzi, cioè gli artisti, soprattutto quelli di nuova generazione, che sfornano continuamente brani, di base non hanno bisogno di un produttore, ma hanno bisogno di un factotum, uno che è un po’ fonico, che gli mette giù delle cose per poter cantare, per poter registrare e così finalizzano i lavori. La figura invece del produttore degli anni ’90, quando poi ho iniziato io, era veramente quella di un po’ più alla Rick Rubin: andavi da lui e ti facevi cucire addosso il vestito giusto per te.
Secondo me in questo momento si deve tornare un po’ a quello, nel senso si deve tornare ad essere degli artigiani, più che dei factotum che vogliono essere in studio con l’artista che sta andando bene. Per cui secondo me la figura del produttore conosce quello che è stato ed è quello che mette a disposizione la sua esperienza. È tutta una cosa di esperienza.
Big Fish
Quanto sono cambiate le regole del gioco rispetto a tanti anni fa? Intendo: se prima la ricerca del campione, la tecnica nel campionare avevano un certo peso, oggi, cosa permette ad un producer di rimanere nel tempo e di non essere un “one hit wonder”?
Diciamo che produttore diventi dopo una serie di “one hit wonder” nel senso che devi fare le tue esperienze.
Negli anni ’90 l’avvento della prima tecnologia permetteva di fare musica a chi come me non sapeva suonare. Perché ricordiamoci che il campionatore è stata la svolta della storia della musica quasi, perché ha permesso ai DJ appassionati di musica, gente che non aveva niente da fare, di poter fare musica senza saperla fare (ride,ndr).
Di una cosa sono abbastanza convinto: si tornerà al campionatore, si tornerà all’utilizzo delle macchine, si tornerà ad essere quelli che giocano sui potenziometri e non stanno davanti a un portatile e scaricano suoni per essere in linea con quello che succede all’estero. Io ti faccio tre nomi di gente che è diventata grande anche solo col campionatore: DJ Premier, Fatboy Slim e il produttore dei Prodigy, Liam. Questi sono dei matti.
Non che non sia d’accordo, ma spiegami.
Fatboy Slim, per fare quello che ancora adesso ascoltiamo, si metteva con un display del campionatore a tagliare ogni singola parola. Lo stesso DJ Premier che componeva con dei chop, con dei pezzi di musica, cose che erano un’altra cosa. Il discorso secondo me è creatività, però, non ci dobbiamo far fottere dalla creatività: dobbiamo fare delle cose che siano giuste per l’artista che abbiamo davanti, a meno che tu decida di fare una tua carriera da artista produttore e ti produci quello che vuoi.
Secondo me il futuro del produttore è essere una figura autorevole, una figura che sa quello di cui sta parlando, perché non sai mai chi ti entra in studio. Può entrarti Ornella Vanoni o Simba La Rue. Devi saper gestire qualsiasi artista che ti arrivi. È questione di essere preparato, essere originale e sapere quello che è successo in passato, perché sennò diventa un grosso problema.
Vedo che più che la voglia di produrre, crescere musicalmente, c’è la voglia di diventare famosi. E questa non è una critica alle nuove generazioni, perché anche i quarantenni sono così, cercano di appigliarsi, aggrapparsi al primo treno che passa per far mettere il proprio nome sul brano. A me onestamente non serve mettere i nomi su un brano: a me serve fare le cose che funzionino.
Big Fish
Negli anni possiamo dire che sei stato talent scout, project manager, producer e consulente di tantissimi artisti (oltre che “psicologo”, come racconti in un’intervista a Rolling Stone del 2017). Fra le tante esperienze musicali e non qual è quella che ti è rimasta più impressa?
Mi sono rimaste impressi i lavori che ho fatto dove c’era la passione. Dove c’era la voglia con l’artista di andare oltre, di non limitarsi a pensare cosa andasse o cosa non. Quando sento questa cosa da parte degli artisti discografici faccio un passo indietro. Ti faccio un esempio: Tradimento di Fabri Fibra. Eravamo due ragazzi che amavano l’hip hop e volevano fare quella roba lì, che poi sia stato il disco più importante della carriera di Fabri Fibra è un altro discorso. È una cosa che è venuta dopo. Noi volevamo fare quel disco.
Ma anche banalmente Stavo pensando a te di Fabri è nata da una mia idea che gli ho spedito e lui ha fatto forse il pezzo più bello della sua carriera.
Ultimamente ho prodotto il disco di Giorgia che per me, voglio dire, è LA cantante. Se apre bocca Giorgia tutti devono stare zitti, te lo dico, perché è la cantante numero uno italiana e non c’è nessun altro che può arrivare neanche minimamente vicino a lei. C’era questa voglia di riposizionare Giorgia in una maniera black, di musica R&B e siamo riusciti a farlo.
Però l’importante era fare un progetto che piacesse in primis a noi. Il grosso problema di alcuni è proprio quello di dire “ok, lo faccio di lavoro, ma non è che deve piacermi tutto quello che faccio“. Io invece ti dico lo faccio di lavoro e voglio che mi piaccia tutto quello che faccio, perché sennò che cosa sto facendo.. Faccio quello che mi dicono di fare gli altri, allora andate da chi è più bravo di me a fare quello che volete che faccia per voi.
Big Fish
Tra le tante hit in catalogo ce n’è una che non ha avuto l’attenzione che meritava. Mi riferisco a “Speak English” che guardava alle sonorità inglesi e anticipava quelle sonorità Grime, Jungle. Come vedi tutta la scena musicale al momento? Tra l’altro ci sono giovanissimi esponenti italiani di questa wave come i Grime Spitterz che stanno portando avanti tanta roba interessante..
Ma guarda, ci siamo scritti proprio su Instagram e gli ho fatto i complimenti, perché io poi oltre a fare il rap ho sempre fatto anche musica elettronica per l’estero: ho lavorato tanto con Diplo.
Guarda, se avessimo fatto questa intervista dieci anni fa ti dicevo esattamente tutti gli artisti grime, i primi chiaramente, perché poi è diventata drill e quella scena è andata un po’ a morire. Adesso grazie a Chase & Status con Baddadan si è ripresa un po’ questa drum and bass più pop e sta nascendo anche in Italia.
Ti dico la verità: Speak English è la base mia, però il merito va solo ed esclusivamente a Fabri Fibra. Ma come del resto, dico sempre una cosa che secondo me è molto importante: la buona riuscita di un brano è da attribuirsi solo all’artista, non al produttore. Dirai.. Non sono d’accordo. Invece da produttore ti dico che la buona riuscita di un brano è da attribuirsi all’artista, perché l’artista è quello che ci mette la faccia.
Se è un fallimento, il produttore fa un’altra cosa. Se è un fallimento per l’artista, è un fallimento per l’artista. Poi tu mi dici i tempi di Pharrell, dei Neptunes, di Timbaland, loro creavano un sound. C’è da dire che però era un altro periodo storico. Adesso il produttore non fa la differenza comunque.
Big Fish
Non mi hai convinto, sai.. Ci sono secondo me qui i produttori come Brian Eno o Burial, per farti un esempio, entrambi usciti quest’anno con nuova musica che sono impattanti proprio per il mercato musicale in toto.
Ma sono produttori o sono artisti?
Direi entrambi..
Esatto, il discorso è quello. Quello che ti sto dicendo è che farsi fare una roba da Metro Boomin o farselo fare da un altro produttore trap, è la stessa cosa.
La roba è che ti porti dietro il bagaglio e il fascino del produttore. Ma se noi parliamo di uno (un produttore, ndr) che ti svolta la carriera, gli ultimi sono stati i Neptunes (il duo composto da Pharrell Williams e Chad Hugo, ndr). Avevano azzeccato il suono. Adesso non c’è un produttore che ha un suono ben specifico. Anche un producer che fino a tre anni fa era al top di tutto, adesso scompare perché ce ne sarà un altro più fresco.
Io con “Me.To.Do” (si riferisce al corso da producer che sta per lanciare, ndr) voglio creare una nuova wave di produttori che, come dici tu, voglio diventino importanti nel mercato musicale.
Partiamo dal nome di questo corso. È solo un bel gioco di parole tra “Me.To.Do” (in inglese) e “Metodo” (in italiano) o c’è dell’altro?
È entrambi, diciamo. È nato dal fatto di voler restituire tutta l’esperienza che ho acquisito in questi anni da persone più grandi di me, più importanti di me, più esperte di me, e cercare di mettere i ragazzi su dei binari di consapevolezza. Non di supponenza o di ego, ma di consapevolezza di quello che si può arrivare a fare e quello che si può arrivare a fare. Questa è l’idea di base.
Ed è per questo che ti parlo del “give back“: aver acquisito delle esperienze e darla a chi se lo merita. E poi, cosa da non escludere, è il fatto di dare la possibilità a dei ragazzi di entrare nel mercato musicale. Se c’è qualcuno veramente valido, si cerca di piazzarlo da qualche parte a lavorare, a produrre, a fare il fonico. Perché, secondo me, nelle scuole iperblasonate c’è tanta teoria e va benissimo, ma manca poi il link per andare a lavorare veramente, a mettere le mani sulle macchine.
Big Fish
E raccontami qual è la filosofia dietro a questo corso che hai costruito.
La teoria generale di “Me.To.Do” è quella del give back. In questi anni ho avuto un tot di esperienze positive e negative. Più negative che positive, perché ti ricordo che per una hit magari ne sbagli 5 o 6 di brani. Ma è così, è normale.
Però quello che dico è che voglio formare delle persone che diventano autorevoli nel mercato musicale italiano. Solo così riesci a fare delle cose e a farti sentire, a farti ascoltare. So che purtroppo il balance a volte tra testa e cuore vince il cuore, perché c’è l’amore per la musica. Con “Me.To.Do” voglio cercare di mettere il più possibile il cuore, ma anche un po’ di testa. Ed è quella la che funziona.
Big Fish
Quindi alle varie definizioni di Big Fish, ora aggiungeremo anche quella di “professore”. Com’è la sensazione? Senti “il peso” del tuo nome o l’ansia di soddisfare le aspettative?
Ti dico la verità. Non vedo l’ora che inizino i corsi per conoscere dei ragazzi nuovi che vogliono fare della loro passione un lavoro. Per me è arricchirsi, è scambio. Banalmente loro hanno un trick per produrre che io non conosco e anche io apprendo da loro.
A me piace poi conoscere le persone, parlare con le persone, cercare di capire meglio di queste persone, cercare di dargli dei consigli, ma anche distruggere le loro convinzioni su come funziona il mercato discografico.
Mi hai raccontato della tua passione, dell’amore per la musica e tutto il bello che c’è in questo lavoro.. Ma mi dici una roba che ancora oggi, dopo di trent’anni di lavoro, ti manda in sbatti?
Semplice. Quando ho degli interlocutori, che siano artisti o discografici poco importa, che vogliono l’industry standard. Non riesco a raccontare la volontà di queste persone.
Chiaro, esiste prendere dei riferimenti, perché non nascondiamoci dietro un dito, tutti quanti prendono i riferimenti, sia cantanti che produttori (e, aggiungo, anche giornalisti, ndr). Però non possiamo prendere dei riferimenti su italiani e dire, ah, facciamo un pezzo alla “artista-X” perché sta andando.
Perché il tempo che fai il pezzo, che lo ascolti, passano dei mesi; quello da cui hai preso il riferimento è già dall’altra parte. A me manda in sbatti la poca originalità.
Nel mondo musicale di Big Fish in cui esistono tante sfumature e in cui diventa artista solo chi ha davvero visione.. Qual è il prossimo passo di Big Fish?
Lavorare, lavorare e ancora lavorare. Diversificare il mio lavoro, fare cose diverse, fare cose giuste per un cinquantenne come me e non fare cose che scimmiotano i ventenni. Quello è il fail più grosso.
Fare cose giuste, crescere in modo consapevole, porsi delle nuove sfide. Non so come dirti, perché diventa difficile, poi io non mi riesco ad abituare. Onestamente, ci sono i produttori di vent’anni che vanno bene, che hanno anche un linguaggio musicale giusto per quelli della loro età.
Io non ce l’ho più e se dovessi provare a fare qualcosa del genere non risulterei vero. Sì, ok, giustissimo, però rimane che comunque hai il tuo suono… Però il mio suono magari non è giusto per un ragazzo di vent’anni. Magari è più giusto per Fabri Fibra, che ha più o meno la mia età, è più giusto per Guè, come Meravigliosa, che ho appena prodotto. È giusto, però magari non è giusto per un ragazzo di 18 anni, che ha degli altri riferimenti.
Siamo alla fine. Facciamo il punto. Mi sembra di capire, dunque, che le tre parole chiavi che servono per emergere in un mercato musicale colmo – se non saturo – di offerta sono “passione”, “umiltà” e “curiosità”. L’accendiamo?
Io ti direi: passione, originalità e voglia di conoscere. L’umiltà va da sé, nel senso che puoi essere anche uno stronzo, però se lavori bene, lavori bene.
Sei sicuro di questo? Perché mi pare che alcuni nuovi produttori abbiano più ego che spirito critico..
Sì, ma tanto puoi essere convinto quanto vuoi. Poi sarà il mercato a dirti se vali o meno, o saranno le cose che fai. Poi se ti schianti di faccia su un muro, ti assicuro che le convinzioni le perdi.
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