Napoli Explosion: Mario Amura e il suo progetto di Capodanno dedicato al Vesuvio
La più antica raffigurazione del Vesuvio ha duemila anni. Decorava la parete di una dimora dell’antica Pompei, la Casa del Centenario, e oggi è custodita al Mann, il Museo archeologico nazionale di Napoli. Il vulcano è dipinto come una dolce collina conica, vestito di castagni e vigne rigogliose, ignaro delle giornate di fuoco e cenere L'articolo Napoli Explosion: Mario Amura e il suo progetto di Capodanno dedicato al Vesuvio sembra essere il primo su Dove Viaggi.
La più antica raffigurazione del Vesuvio ha duemila anni. Decorava la parete di una dimora dell’antica Pompei, la Casa del Centenario, e oggi è custodita al Mann, il Museo archeologico nazionale di Napoli.
Il vulcano è dipinto come una dolce collina conica, vestito di castagni e vigne rigogliose, ignaro delle giornate di fuoco e cenere del 79 d.C. che avrebbero scolpito per sempre la memoria universale, trasformandolo in un simbolo potente, temuto e celebrato dalla comunità che vi si adagia attorno.
Nelle vedute di Turner, Marlow, Voltaire e Warhol è colorato di lava incandescente. Ma in Napoli Explosion, il progetto fotografico di Mario Amura, il Vesuvio si rivela diverso: è un guardiano immobile che sembra osservare silenzioso un’esplosione di luce, stavolta generata dagli uomini.
“Ogni giorno, dalla finestra della mia stanza, il mio sguardo di bambino si posava su quella presenza imponente, capace di incutere rispetto e nutrire meraviglia”, esordisce Amura, fotografo, direttore della fotografia e visual artist cresciuto a Torre Annunziata, in una casa affacciata sul vulcano.
La Montagna sarebbe diventata non a caso lo scenario di una delle sue future esplorazioni artistiche, intrecciandosi a una carriera declinata tra teatro e cinema, dove ha “illuminato” i set di registi come Luca Guadagnino, Paolo Sorrentino, Saverio Costanzo e Vincenzo Marra.
I fuochi e i botti: un modo per esorcizzare una paura ancestrale
Ma torniamo a quell’irresistibile richiamo: “Dopo anni lontano da Napoli, nel 2006 decido di trascorrere il Capodanno sul Vesuvio con alcuni amici. Mentre scatto foto tra i pini secolari, vedo i fuochi d’artificio deflagrare in lontananza”, racconta. È un momento rivelatore, l’occasione per interrogarsi sul legame simbolico tra quella presenza minacciosa e i rituali pirotecnici: “Forse il popolo napoletano ha trasformato i fuochi in un modo per esorcizzare una paura ancestrale, mi dico”, aggiunge
Questa intuizione diventa ricerca antropologica: “Altrove i fuochi d’artificio sono spettacoli orchestrati da maestri pirotecnici per il pubblico – continua – Qui, invece, sono un’esperienza vissuta in prima persona, che si fa rito collettivo”.
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I fuochi ripresi dal Monte Faito
Nel 2010, Amura cambia prospettiva, spostandosi sul Monte Faito: da lì a Capodanno il Vesuvio si presenta avvolto da esplosioni luminose: “Ho capito che poteva nascere un progetto, un racconto visivo inconsueto”, spiega.
Da allora, ogni 31 dicembre torna sulla cima che si affaccia sulla Baia di Napoli con gli amici più cari, storici, filosofi, intellettuali che sono diventati suoi compagni di viaggio: è la troupe di Napoli Explosion, che segue le sue indicazioni come quelle di un direttore d’orchestra: “per catturare con gli obbiettivi delle macchine fotografiche questo spettacolo unico. Aspetteremo la mezzanotte sul Faito anche quest’anno”, anticipa.
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Un’esplosione simbolica che riflette le grandi paure contemporanee
Le immagini che prendono vita ribaltano l’iconografia classica del Vesuvio in eruzione: qui il vulcano tace, è spettatore e cornice di una festa luminosa. Appare come un gigante muto e ingioiellato. Quegli scatti, vibranti di bagliori e colore, sembrano dipinti.
Da narrazione personale, quasi segreta, il lavoro che Mario Amura coltiva nell’arco di 13 anni “evolvendosi nel tempo, alla ricerca del sentimento della luce” viene notato, appassiona i critici d’arte e inaugura una dimensione pubblica: trentasette opere di grandi dimensioni, montate su lightbox, sono state presentate nei mesi scorsi al Museo di Capodimonte, con una di esse entrata a far parte della collezione permanente.
“La tecnica di Amura è straordinaria: cattura un’esplosione simbolica che riflette le grandi paure contemporanee”, ha scritto Sylvain Bellenger, curatore della mostra, che ha scelto questa esposizione come uno degli ultimi progetti del suo mandato alla guida del Museo e Real Bosco.
Un altro quadro, poi, è visibile negli spazi del Pio Monte della Misericordia, nel cuore del centro storico di Napoli, dove si ammira il celebre capolavoro di Caravaggio Le Sette Opere di Misericordia.
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Una manciata di minuti per raccontare tutta l’essenza
I fuochi d’artificio che circondano il vulcano fissati negli scatti diventano a volte nebulose, oppure animali, paesaggi stellari, fondi marini. Ma il materiale di Amura non è narrazione costruita a tavolino e non c’è elaborazione grafica delle immagini. Resta a tutti gli effetti un reportage: “Abbiamo solo una manciata di minuti all’anno per cogliere l’essenza di ciò che accade e raccontarlo. Un’occasione irripetibile, reale, legata al qui e ora”, precisa l’autore di Napoli Explosion.
“È una creazione distante dall’astrazione gestuale di un autore come Pollock, i cui schizzi sulla tela seguono la gravità – aggiunge – Ogni fuoco invece crea una traccia che riflette non solo la luce nel cielo, ma l’intenzione e la mano che l’ha guidata”. Dietro a ciascun gesto, chissà, possono esserci gioia, ironia, timore, speranza per il nuovo anno che verrà.
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“Napoli Explosion è un inno alla città”
Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, presidente del Consiglio scientifico del Louvre, ha scritto che Napoli Explosion è “un inno alla città”, perché ci si trova di fronte a “un’opera pittorico-fotografica che prodigiosamente si compie, fedele alle regole del reportage”. Ed è per questo che, quest’anno, il professore si unirà con l’entusiasmo dello studioso all’esperienza di reportage artistico sul monte Faito.
La “fotografia candida” ispirata a Henri Cartier-Bresson
Mario Amura racconta del resto di essersi ispirato alla “fotografia candida” di un maestro come Henri Cartier-Bresson, incontrato quando era un ragazzo: “Il fotografo deve essere invisibile, rispettoso, un osservatore che non interferisce”, sottolinea. Anche il passato da direttore della fotografia di Amura è stato fondamentale, in questo senso: “Il cinema mi ha insegnato a guardare il mondo attraverso gli occhi degli altri. Una lezione appresa da Giuseppe Rotunno, mio docente al Centro Sperimentale di Cinematografia, di cui poi sono stato assistente”.
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I progetti di Amura
Sebbene la direzione delle luci non lo affascini più, Mario Amura confessa: “Mi piacerebbe tornare al cinema, ma da regista”. C’è tanto materiale, però, su cui sta lavorando. Dal 2005, con l’avvento della fotografia digitale, ha iniziato a esplorare nuovi linguaggi, fondendo fotografia e cinema per raccontare l’invisibile: “Ho sviluppato l’idea di narrare flussi emotivi attraverso sequenze fotografiche, una sorta di “fotoromanzo contemporaneo” – spiega – immagini che catturano frammenti di realtà, sincronizzate con la musica, dove unisco due concetti opposti: la fotografia che sospende l’attimo e il cinema che lo fa scorrere”.
Per il progetto StopEmotion, ancora inedito, ha raccolto immagini tra Bosnia, India, Cina, Francia, Inghilterra e Cambogia, mentre dal 2007 lavora a Fujenti, un originale reportage costruito nel tempo e tuttora in progress.
E se tra i luoghi dall’energia speciale Amura cita senza esitazione il Molo di Bagnoli, “una promenade sul mare, un cammino di quasi un chilometro sospeso tra cielo e acqua”, eccoci pronti a spostarci di nuovo sul Vesuvio per raccogliere un’ultima suggestione: “Quando ho portato mia figlia la prima volta, ai piedi del vulcano, aveva quattro anni – oggi ne ha otto – le ho detto: ‘Guarda, Lea, questo è il Vesuvio, porta dentro di sé il fuoco, la lava’, provando a descriverlo tra mito e leggenda. Qualche giorno dopo, le ho detto di nuovo: “Ecco, Lea, il Vesuvio, salutalo”. E lei, con l’innocenza e la semplicità di una bambina, mi ha risposto: “Sì, salutiamolo, ma a bassa voce”. Quelle parole mi hanno colpito più di mille teorie: il vulcano non è solo una montagna, ma una presenza viva, che ispira subito reverenza. E ci ricorda il nostro legame profondo con la natura e con l’universo”.
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