Fabrizio Bosso: “L’Africa mi ha cambiato”
Fabrizio Bosso ha iniziato a suonare la tromba a cinque anni. Una passione precoce, che l’ha portato a diplomarsi giovanissimo al Conservatorio di Torino, città dov’è nato nel 1973. Tra dischi, collaborazioni e concerti in ogni angolo del mondo, la sua musica ha dialogato con i grandi maestri italiani del jazz, da Gianni Basso a Enrico Rava L'articolo Fabrizio Bosso: “L’Africa mi ha cambiato” sembra essere il primo su Dove Viaggi.

Fabrizio Bosso ha iniziato a suonare la tromba a cinque anni. Una passione precoce, che l’ha portato a diplomarsi giovanissimo al Conservatorio di Torino, città dov’è nato nel 1973. Tra dischi, collaborazioni e concerti in ogni angolo del mondo, la sua musica ha dialogato con i grandi maestri italiani del jazz, da Gianni Basso a Enrico Rava e Rita Marcotulli, e con leggende d’oltreoceano come Charlie Haden, Carla Bley, Dee Dee Bridgewater, Diane Reeves. Non sono mancate incursioni felici nel pop, accanto ad artisti del calibro di Claudio Baglioni, Zucchero, Renato Zero, Sergio Cammariere, né esperienze con prestigiose ensemble, come la London Symphony Orchestra, il Coro di Santa Cecilia e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino.
Una traiettoria artistica che rifugge le etichette e che lo ha spinto spesso a incontrare altri suoni, altre geografie: «Il mio è un viaggio dentro il jazz, certo, con cui sono cresciuto, ma anche nelle sue tante declinazioni: funk, musica brasiliana, soul», ci spiega. Vocazione testimoniata da una stagione di live intensa e trasversale: l’8 giugno a Fratta Polesine (Rovigo), Fabrizio Bosso, con il pianista jazz Julian Oliver Mazzariello, presenta il primo dei numerosi concerti estivi dedicati al repertorio di Pino Daniele: Il cielo è pieno di stelle, un tributo al cantautore napoletano, nato sul palco e diventato anche un album (Warner Music, 2024). Il 12 giugno è la volta di Symphonize al Teatro dal Verme di Milano, accanto all’Orchestra I Pomeriggi Musicali: in scaletta composizioni del trombettista e brani che hanno segnato il suo percorso musicale, con gli arrangiamenti e la direzione d’orchestra di Paolo Silvestri. Il 20 giugno segna poi l’uscita di Welcome Back (Warner Music), il nuovo album dello Spiritual Trio (con Alberto Marsico e Alessandro Minetto), con cui Bosso continua a esplorare le radici della musica afroamericana.
Il suo legame con la musica nasce da bambino: dov’è partito questo percorso?
«Sono cresciuto a una ventina di chilometri da Torino, città dove ho mosso i primi passi come musicista, nelle jam session che animavano la scena artistica. Le mie prime esperienze professionali importanti, però, sono arrivate altrove. Oggi vivo a Roma, ma resto profondamente legato a Torino, a cui sono grato per l’accoglienza e la vivibilità. E più recentemente, in un certo senso, me ne sono rinnamorato».
Come mai?
«Lo scorso anno, suonando nello spettacolo teatrale “Fred!” dedicato a Fred Buscaglione, mi sono fermato in città per quindici giorni e l’ho vissuta con occhi nuovi. Niente auto, solo passeggiate. Torino aveva già conosciuto un importante restyling urbano con le Olimpiadi Invernali del 2006, ma l’ho riscoperta ancora più internazionale, viva di turismo e di eventi. Camminare per il centro è un incanto: strade meravigliose, palazzi eleganti, angoli pieni di fascino. E poi, i caffè: adoro quei locali storici torinesi in cui entri e subito senti il calore».
Quando ha lasciato casa, quale tappa è stata decisiva per la sua crescita artistica?
«La Puglia, dove sono stato praticamente catapultato poco più che ventenne. Mi sono trasferito a Bari, in quegli anni un vero crocevia di energia creativa. Era un periodo segnato dall’influenza di artisti come Nicola Conte (compositore e produttore con il quale Bosso ha collaborato in diverse occasioni, n.d.r.), e da realtà musicali sorprendenti che spesso sfuggivano all’attenzione del resto del Paese. A Bari ho avuto la fortuna di confrontarmi con musicisti straordinari, con cui ho anche inciso dischi. Poi, con il lavoro che mi portava sempre più spesso in giro, mi sono spostato».
Torna spesso in Puglia?
«Da musicista la vivo costantemente. C’è una sensibilità spiccata, alimentata da una tradizione bandistica ancora viva, e sono molti i ragazzi che si avvicinano allo studio di strumenti come la tromba o il trombone. Uno dei miei sogni è trovare casa nel centro storico di Lecce: una bomboniera, dove la cultura si respira a ogni passo, semplicemente camminando tra le vie, guardandosi intorno».
Che ruolo ha il viaggio, fisico e musicale, nel suo percorso artistico?
«La possibilità di girare molto e vivere contesti diversi ti apre il mondo. Suonare jazz accanto a grandi maestri afroamericani, ad esempio, è stato un passaggio decisivo, una scuola autentica che mi ha aiutato a crescere. Ma ogni incontro, ogni esperienza, aggiunge qualcosa. Ed è entusiasmante suonare con artisti di nazionalità diverse: se esegui lo stesso brano con un batterista giapponese non troverai lo stesso swing di un musicista afroamericano, prende un’altra direzione: c’è un comune denominatore ma allo stesso tempo si aprono strade nuove».
C’è un luogo che d’istinto ha voluto trasformare in un brano?
«È successo quando ho scritto Dubai. Era la mia prima visita in quella città, e ho sentito il bisogno di tradurre in note le sensazioni che ho provato durante il soggiorno. Ne è nato un brano che definirei quasi “pirotecnico”, con ritmiche che cambiano, come cambia la città».
Un viaggio particolare che ha acceso la sua ispirazione?
«Penso a un pezzo nato di getto, legato a una delle poche vacanze vere che mi sono concesso. Ero a Zanzibar, tanti anni fa. Ogni mattina incontravo sulla spiaggia un masai con il figlio, un bimbo di tre o quattro anni che mi si avvicinava, sin dal primo giorno, con un sorriso contagioso. Mi ha colpito al punto che, in breve tempo, è nata una melodia. L’ho chiamata Rumba for Kampei, dal nome del bambino».
l jazz vive anche di improvvisazione. Da viaggiatore preferisce farsi guidare dall’istinto o programmare?
«Preferisco essere organizzato. Per lavoro mi trovo spesso ad affrontare imprevisti, quindi in vacanza cerco solo di rilassarmi. Anche se non c’è da timbrare un cartellino, vorrei che tutto filasse liscio. Per questo pianifico il più possibile».
In mezzo alla frenesia dei tour, da una città all’altra, cosa cerca prima di un concerto?
«Sicuramente ho bisogno di momenti di tranquillità, di spazi in cui potermi isolare un po’. Quando viaggio in treno, per esempio, adoro le carrozze silenziose del Frecciarossa: mi aiutano a raccogliermi e magari a prepararmi. Cerco sempre qualche minuto tutto per me, oppure lo passo con i musicisti con cui salirò sul palco».
Ci sono gesti o abitudini che la aiutano a entrare e uscire dalla concentrazione che richiede il palco?
«Se posso, mi ritaglio del tempopasseggiando in un parco o, se sono vicino al mare, semplicemente affacciandomi sulla riva. Non è tanto un bisogno di disconnessione, quanto un modo per centrarmi. A volte è rigenerante, altre può anche riportarti con più forza ai pensieri o alle cose da affrontare. Insomma, mi regolo ascoltando quello che mi serve, lì per lì. Dopo un’esibizione, invece, riesco anche a buttarmi nella mischia, a godermi l’energia che è arrivata dal pubblico. E mi fermo a pensare a com’è andata: ho un forte rispetto per chi ha scelto di esserci, di acquistare un biglietto invece di fare mille altre cose. E sento la responsabilità di dare sempre il massimo».
C’è un’esibizione che ricorda con particolare emozione?
«Quella capitata in un villaggio sperduto del Kenya. Ero con Luciano Biondini, fisarmonicista. Stavamo rientrando in direzione dell’aeroporto quando, lungo la strada, abbiamo visto dei bambini camminare in divisa e scalzi. Erano piccoli, dai 4 ai 10 anni. Ci siamo rivolti all’autista per sapere dove stessero andando: ci ha detto che lì vicino c’era una scuola. A quel punto, gli abbiamo chiesto se fosse possibile fare una sosta».
E vi siete fermati?
«Abbiamo trovato questa scuola fatta di lamiere, e chiesto di parlare con una responsabile. È arrivata la preside. Ci siamo presentati: “Siamo musicisti, possiamo eseguire un brano per i bambini?”. Sorpresa e commossa, ha suonato una piccola campana sulla sua scrivania: nel giro di pochi minuti sono arrivati 200, forse 250 bambini. Tutti in silenzio, si sono seduti in semicerchio, davanti a noi, nel cortile sterrato».
Siete riusciti a suonare solo per loro?
«Ci siamo guardati e abbiamo iniziato a suonare. In quell’istante è successo qualcosa di irripetibile. Gli sguardi, i sorrisi, la gioia autentica di quei piccoli ci ha restituito qualcosa di unico: è stato uno dei momenti più forti che abbia mai provato, una di quelle esperienze che ti cambiano davvero la vita».
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