Piccole iene, ieri e oggi. Intervista a Manuel Agnelli

Manuel Agnelli è così – prendere o lasciare, lo sappiamo tutti. È orgoglioso dei suoi mille progetti – e ha tutte la ragioni per esserlo. Sa essere caustico come pochi quando torna su certe sue battaglie e polemiche “storiche”. Ma è schietto anche nel descriversi senza termini accomodanti. C’è un concentrato del suo pensiero in questa oretta abbondante di chiacchierata in un’atmosfera molto informale. Un pensiero Manuel-centrico, e come lui portato per vocazione a far discutere. Gli argomenti belli e spinosi sono tanti e si parla davvero di tutto. Il tour dei redivivi Afterhours che accompagna la nuova edizione di Ballate per piccole iene è soltanto il primo argomento ma anche uno dei più “caldi”. Ballate è stato un album importante, decisivo nel percorso degli After. Oltre a ribadire, sempre se ce ne fosse ancora bisogno, lo status raggiunto in anni di percorso nella scena nostrana, aveva addirittura rilanciato le aspirazioni internazionali rimaste un poco in standby dopo la scelta definitiva per l’italiano – giusto un decennio prima con Germi. Era il seguito di un disco di “crisi”, Quello che non c’è, che pure aveva compattato e reinventato la band dopo i cambiamenti e le defezioni dolorose di inizio duemila, e da una crisi ripartiva alla ricerca di nuovi stimoli e suggestioni, trovate in una felice collaborazione con Greg Dulli, che si divide con Agnelli il ruolo di produttore e in quel 2005 era un membro effettivo della band. La vena “dark soul” – calda, sensuale, ritmica, “sporca” e nel contempo elegante – è una caratteristica delle Ballate… che le differenzia dai lavori precedenti e le rende a loro modo l’ultimo “classico” degli After, i cui dischi successivi saranno più ermetici o intricati – ma sempre per la stessa, tormentata voglia di reinventarsi di continuo che ha scandito le tappe della vita del gruppo dal lontano 1986. Di Ballate per piccole iene esce il 6 giugno, giusto per i vent’anni (l’anniversario esatto cadeva il 15 aprile), una riedizione rimasterizzata supervisionata dallo stesso Agnelli. Da qui partiamo e da qui Manuel comincia a raccontare e a raccontarsi. «L’idea di questa ristampa non è stata nostra ma della Universal. Ho accettato volentieri perché ci hanno offerto di fare il remastering: non l’avrei fatto altrimenti, anche se la scelta ovviamente su queste cose non spetta a me, i diritti sul disco li hanno loro e possono fare quello che vogliono. Il mastering originale non mi era mai piaciuto, quando riascoltavo il disco alcuni pezzi li skippavo proprio. Ballata per la mia piccola Iera che poi dal vivo è diventata una colonna portante delle nostre scalette, la saltavo perché non mi piaceva per niente la voce. Greg Dulli nel produrci aveva fatto un grande lavoro, aveva compattato parecchio le nostre idee e dato all’album un suono coerente. Infatti Ballate rimane un disco abbastanza vario ma con un’atmosfera ben definita, dall’inizio alla fine. Poi era intervenuto in fase di mixaggio John Parish che per caratteristica sua usa pochissimi effetti, sulle voci quasi zero, e tende a tirar fuori suoni il più possibile al naturale. Il problema del mastering non era solo di quel pezzo, ma Ballata per la mia piccola iena in particolare era diventata una sorta di tubo: aveva questo mastering all’inglese anni ’80, alla Martin Hannett, che l’aveva resa veramente molto scura, sena alcun tipo di armoniche in alto, e la mia voce era diventata “mediosissima”, senza bassi, senza armoniche sotto. Dal vivo non è mai stata così: cantavo quasi da crooner nella strofa e poi il pezzo partiva, il bello è proprio del contrasto tra il crooning delle strofe e la parte urlata del ritornello. Ora questo contrasto siamo riusciti a tirarlo nuovamente fuori perché abbiamo abbandonato il vecchio master e siamo ripartiti dai mix originali non masterizzati. Saranno “pippe” però adesso quel pezzo me l’ascolto. Il mastering era stato fatto in Inghilterra, al Loudmastering di Taunton, uno studio della Madonna [sic!] dove avevamo Paul Weller nella stanza a fianco, però era proprio la direzione che non mi era piaciuta; e io un po’ per provincialismo l’avevo accettato così, perché mi dicevo: “Cazzo l’abbiamo fatto al Loud Mastering con John Loder, non può essere una merda”. Poi con gli anni mi sono pentito, come al solito, di non aver fatto l’isterico quando invece avrei dovuto. Per questo i pezzi nella nuova versione hanno acquistato tantissimo a livello sonoro, sia in volume naturalmente, perché adesso ci sono macchine che non c’erano vent’anni fa, ma anche e soprattutto in armoniche, in pasta di suono, in definizione per moltissime cose: mi sento di dire che non c’è paragone tra questa nuova edizione, che suona dieci db più alta e in tutt’altra maniera, e la precedente italiana. Avevamo fatto una versione inglese l’anno dopo, e proprio perché non ero contento del mastering, avevo preso il disco e l’avevo sfrantecato con dei plug-in su Pro Tools: nella versione inglese suona sfrantecato appunto ma più vicino a quello ch

Jun 3, 2025 - 23:30
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Piccole iene, ieri e oggi. Intervista a Manuel Agnelli

Manuel Agnelli è così – prendere o lasciare, lo sappiamo tutti. È orgoglioso dei suoi mille progetti – e ha tutte la ragioni per esserlo. Sa essere caustico come pochi quando torna su certe sue battaglie e polemiche “storiche”. Ma è schietto anche nel descriversi senza termini accomodanti. C’è un concentrato del suo pensiero in questa oretta abbondante di chiacchierata in un’atmosfera molto informale. Un pensiero Manuel-centrico, e come lui portato per vocazione a far discutere. Gli argomenti belli e spinosi sono tanti e si parla davvero di tutto.

Il tour dei redivivi Afterhours che accompagna la nuova edizione di Ballate per piccole iene è soltanto il primo argomento ma anche uno dei più “caldi”. Ballate è stato un album importante, decisivo nel percorso degli After. Oltre a ribadire, sempre se ce ne fosse ancora bisogno, lo status raggiunto in anni di percorso nella scena nostrana, aveva addirittura rilanciato le aspirazioni internazionali rimaste un poco in standby dopo la scelta definitiva per l’italiano – giusto un decennio prima con Germi. Era il seguito di un disco di “crisi”, Quello che non c’è, che pure aveva compattato e reinventato la band dopo i cambiamenti e le defezioni dolorose di inizio duemila, e da una crisi ripartiva alla ricerca di nuovi stimoli e suggestioni, trovate in una felice collaborazione con Greg Dulli, che si divide con Agnelli il ruolo di produttore e in quel 2005 era un membro effettivo della band. La vena “dark soul” – calda, sensuale, ritmica, “sporca” e nel contempo elegante – è una caratteristica delle Ballate… che le differenzia dai lavori precedenti e le rende a loro modo l’ultimo “classico” degli After, i cui dischi successivi saranno più ermetici o intricati – ma sempre per la stessa, tormentata voglia di reinventarsi di continuo che ha scandito le tappe della vita del gruppo dal lontano 1986.

Di Ballate per piccole iene esce il 6 giugno, giusto per i vent’anni (l’anniversario esatto cadeva il 15 aprile), una riedizione rimasterizzata supervisionata dallo stesso Agnelli. Da qui partiamo e da qui Manuel comincia a raccontare e a raccontarsi. «L’idea di questa ristampa non è stata nostra ma della Universal. Ho accettato volentieri perché ci hanno offerto di fare il remastering: non l’avrei fatto altrimenti, anche se la scelta ovviamente su queste cose non spetta a me, i diritti sul disco li hanno loro e possono fare quello che vogliono. Il mastering originale non mi era mai piaciuto, quando riascoltavo il disco alcuni pezzi li skippavo proprio. Ballata per la mia piccola Iera che poi dal vivo è diventata una colonna portante delle nostre scalette, la saltavo perché non mi piaceva per niente la voce. Greg Dulli nel produrci aveva fatto un grande lavoro, aveva compattato parecchio le nostre idee e dato all’album un suono coerente. Infatti Ballate rimane un disco abbastanza vario ma con un’atmosfera ben definita, dall’inizio alla fine. Poi era intervenuto in fase di mixaggio John Parish che per caratteristica sua usa pochissimi effetti, sulle voci quasi zero, e tende a tirar fuori suoni il più possibile al naturale. Il problema del mastering non era solo di quel pezzo, ma Ballata per la mia piccola iena in particolare era diventata una sorta di tubo: aveva questo mastering all’inglese anni ’80, alla Martin Hannett, che l’aveva resa veramente molto scura, sena alcun tipo di armoniche in alto, e la mia voce era diventata “mediosissima”, senza bassi, senza armoniche sotto. Dal vivo non è mai stata così: cantavo quasi da crooner nella strofa e poi il pezzo partiva, il bello è proprio del contrasto tra il crooning delle strofe e la parte urlata del ritornello. Ora questo contrasto siamo riusciti a tirarlo nuovamente fuori perché abbiamo abbandonato il vecchio master e siamo ripartiti dai mix originali non masterizzati. Saranno “pippe” però adesso quel pezzo me l’ascolto. Il mastering era stato fatto in Inghilterra, al Loudmastering di Taunton, uno studio della Madonna [sic!] dove avevamo Paul Weller nella stanza a fianco, però era proprio la direzione che non mi era piaciuta; e io un po’ per provincialismo l’avevo accettato così, perché mi dicevo: “Cazzo l’abbiamo fatto al Loud Mastering con John Loder, non può essere una merda”. Poi con gli anni mi sono pentito, come al solito, di non aver fatto l’isterico quando invece avrei dovuto. Per questo i pezzi nella nuova versione hanno acquistato tantissimo a livello sonoro, sia in volume naturalmente, perché adesso ci sono macchine che non c’erano vent’anni fa, ma anche e soprattutto in armoniche, in pasta di suono, in definizione per moltissime cose: mi sento di dire che non c’è paragone tra questa nuova edizione, che suona dieci db più alta e in tutt’altra maniera, e la precedente italiana. Avevamo fatto una versione inglese l’anno dopo, e proprio perché non ero contento del mastering, avevo preso il disco e l’avevo sfrantecato con dei plug-in su Pro Tools: nella versione inglese suona sfrantecato appunto ma più vicino a quello che volevo. In questa versione nuova invece è come avrei sempre voluto. La tournée poi è nata perché la Universal ci ha chiesto di fare promozione per la ristampa. A quel punto invece di fare il solito giro di promozione generica che chissà a cosa sarebbe servito abbiamo detto “facciamo un tour” – perché è la promozione migliore che possiamo fare. Sicuramente è anche un modo di celebrare il disco in maniera un po’ meno asfittica e pallosa; e poi erano sei anni abbondanti che gli After non andavano in tour e in un modo o nell’altro volevo capire a che livello eravamo oggi dopo sei anni di pausa.»

La scelta è caduta per ovvie ragioni sui musicisti che avevano suonato nel disco originale: parliamo di Giorgio Prette, Dario Ciffo, e Andrea Viti, nessuno dei quali era nell’ultima formazione degli Afterhours. «Se vogliamo celebrare un disco che è stato realizzato suonando live in studio con tanto di monitor – ho rifatto solo le voci e neanche tutte: i cori sono originali, gli urlati sono quasi tutto originali, gli assoli sono quelli della take live, ci sono giusto qualche tastiera e i tamburelli sovraincisi, ma di base, così come Quello che non c’è, Ballate per piccole iene è un disco registrato live in studio – allora è più coerente farlo con la band che lo aveva registrato. Prendere una band che non c’entrava nulla sarebbe stato molto strano; e poi è un dato di fatto, che gli ultimi Afterhours erano un progetto musicale con bravissimi musicisti, ma non una band. Appena ho parlato di questa idea con Giorgio, Dario, Andrea, ho visto una luce nei loro occhi, sono tutti felicissimi: per loro è qualcosa di davvero importante, non è solo un progetto figo. Ho capito che sarebbe stata una cosa speciale, speciale per tutti; e non è un dettaglio da poco. Tutti loro hanno avuto momenti difficili a livello personale in questi anni, come li ho avuti anch’io, quindi c’è voglia di fare qualcosa che ci dia forza, energia».

Gli Afterhours di questo tour non saranno solo in quattro, c’è almeno un quinto prezioso elemento: «Mi porto dietro Giacomo Rossetti, che è prima di tutto il bassista dei Negrita, ma ha fatto anche da bassista e polistrumentista nei miei tour da solista. Oltre che un bravissimo musicista, che mi tiene a bada tutti, è un uomo-band, lo definisco un “incollatore”, che sa affrontare e risolvere i problemi e le pippe dei musicisti e riesce a volare sopra le paranoie – perché si sa che le band sono caratterizzate purtroppo da queste cose, che sono alla base della loro creatività però anche della rottura di coglioni che dopo un po’ ti procurano.»

A questo punto è inevitabile domandargli se al di là di questo che possiamo definire un piccolo “revival” ci sia spazio per un’attività futura degli Afterhours, magari con del materiale nuovo. Lui risponde con franchezza: «Guarda, gli After io li vivo alla giornata ormai da un bel po’ – da qualche anno. A un certo punto ne avevo abbastanza nel modo in cui erano organizzati, come una piccola azienda, in cui tutti avevano almeno dieci progetti personali e poi nei ritagli di tempo “facciamo gli After” che poi erano quelli che davano da mangiare a tutti… È un po’ come avere un marito, un fratello che vanno a scopare in giro, poi arrivano a casa e vogliono la pappa pronta, il letto rifatto e i calzini puliti. Era un po’ questa la sensazione, e la moglie ero io naturalmente, per cui mi ero rotto i coglioni… Con il mio progetto solista invece ho ritrovato la felicità di stare in una band. Ho un sacco di materiale pronto, il che non vuol dire che non diventerà degli Afterhours: in passato le cose non erano diverse, portavo il 70 per cento della musica e gli altri ci suonavano sopra. Ci sono stati dischi nati anche dall’improvvisazione in sala prove, ma mai per più del quaranta o cinquanta per cento. Non so ancora se la musica che farò uscire sarà per gli After o per un altro mio progetto solista. Vedremo, vorrei proprio evitare di dover organizzare qualcosa mesi e mesi prima cercando di matchare gli impegni di tutti in modo che in quel periodo, per quel mese, si trovino tutti nello stesso posto, e poi ognuno se ne va per i fatti suoi».

Voglio godermela, dice Manuel, e anche se l’approccio è più libero e rilassato, la sua attività è frenetica, o perlomeno lo è stata in quest’ultimo periodo. «Sono a teatro con Lazarus, faccio musica come sempre, in televisione vado e vengo però sono sempre lì, sono alla radio, ogni tanto butto la testa anche nel cinema, non dipendo da nessun ambiente, ed è quello che volevo. Sono riuscito a fare quello che volevo nella vita e ho usato la musica per questo: ho messo la musica al servizio della mia vita, non il contrario. In questo momento, non dipendendo da nessun ambiente, posso tranquillamente decidere che cosa fare e quando farlo. Credo che l’anno prossimo mi prenderò un anno sabbatico se ci riesco perché, si, gli ultimi anni sono stati anni stimolantissimi ma molto pieni. Se prima ho fatto tutto questo per vivere adesso è il momento di vivere prima che non mi lascino più uscire dall’ospizio…»

Torniamo allora indietro un attimo, a Ballate per piccole iene e alla sua storia. «Sì, in quegli anni ci sono successe tante cose che sono arrivate un po’ troppo tardi per convincerci a un cambiamento di vita totale ma in tempo per darci nuova energia e voglia di fare. Ballate per piccole iene veniva dopo un album come Quello che non c’è, che è il primo disco scuro degli After, a cui sono ancora molto legato, in cui avevo più bisogno di raccontarmi rispetto al passato dove giocavo di più – mentre lì ho giocato un po’ meno. Ballate è un disco figlio di un momento di confusione: da disturbatori ostili che provocavano il pubblico, fino al punto di arrivare a picchiarci con i nostri spettatori, con dei suoni che per il periodo, per l’Italia, erano comunque abbastanza estremi, eravamo diventati dei piccoli idoli dell’indipendenza italiana, che voleva dire suonare davanti a migliaia di persone che cantavano in coro i pezzi, aver perso totalmente quello che era il nostro primo ruolo e non sapere più perché facevamo musica. Prima uno scopo ce l’avevamo ed era provocare – anche nel senso di stimolare una discussione, non c’era solo nichilismo ma la voglia di sfidare un pubblico e una scena musicale dove c’erano sempre stati e ci sono ancora tantissimi cliché, anche nel mondo indipendente. Poi quella cosa era finita e non sapevamo più cosa saremmo stati, non sapevo più cosa sarei stato io. Perciò avevo cominciato a scrivere ma essenzialmente per me, non per avere un risultato. In quel periodo ho conosciuto Greg che quasi subito mi ha offerto di suonare con lui: nel 2004 ho fatto il primo tour come tastierista dei Twilight Singers in Europa e negli Stati Uniti. Ne è nata un’amicizia che dura ancora oggi. Per me era stato naturale coinvolgerlo per farmi dare una mano proprio perché avevo dei pezzi ma non sapevo in che direzione andare. E lui ci messo tanto del suo, intuizioni ritmiche ed elementi black che gli After non avevano mai avuto e che non hanno più avuto dopo quel disco, a cui Greg ha dato un sound molto coerente. Quelli sono stati gli anni in cui abbiamo cominciato a girare all’estero: One Little Indian ci ha messo sotto contratto in tutta Europa, negli Stati Uniti e in Canada e abbiamo fatto una decina di tour statunitensi e una dozzina di tour europei, dalla fine del 2005 fino al 2012. Il primo tour è stato magico; a parte è che stato il più bello anche musicalmente per i posti in cui abbiamo suonato, dato che aprivamo spesso per altri, Jeff Klein, Mark Lanegan, i Twilight Singers stessi, in posti come l’Irving Plaza, l’Avalon, il 9.30 a Washington, il Metro a Chicago. Abbiamo iniziato aprendo per due band e abbiamo finite con delle buonissime recensioni. Pop Matters aveva dato 8 al nostro disco scrivendo che eravamo “i Soundgarden ma intelligenti” [esattamente “Soundgarden, but with brains and beauty” (sic), la recensione la potete leggere qui, NdSA]. Per noi è stato un sogno, un po’ da provinciali se vuoi, ma era come per un tennista tailandese arrivare a Wimbledon ed essere considerato una testa di serie. Abbiamo fatto altri tour nostri, in cui, non aprendo per qualcuno, suonavamo in locali meno prestigiosi, io ne ho fatti altri con Greg Dulli e con Mark Lanegan: avrò fatto un cinquecento date in tutto il mondo, suonando in tutti i festival più grandi. È stato un periodo molto stimolante ma avevo una figlia, avevo già quarant’anni, era un po’ tardi per dire prendiamo armi e bagagli e partiamo. In Italia stavamo andando benissimo, e quindi ho preso delle decisioni da uomo più che artista-musicista; invece di farmi vent’anni di gavetta all’estero a quarant’anni per cercare di costruire qualcosa, sono tornato in Italia e, ti dico la verità, ho fatto bene. Perché poi tutto quello che è successo mi ha dato ragione, sono una persona libera adesso».

Un elemento iconico di quel disco, e un’altra storia particolare, è la copertina. «Prima non eravamo mai riusciti a mettere in copertina noi stessi. Fare le foto a una band è sempre difficile, devi riuscire a fare in modo non tanto che tutti vengano bene, ma che la foto abbia un senso. Quella formazione lì, mettiamola così, non era portata per i media, anzi… E quindi abbiamo pensato: “Facciamo delle foto singole e poi le assembliamo, così almeno abbiamo la possibilità di scegliere”. Abbiamo pensato a Guido Harari che ha accettato, le session sono state bellissime, lui super tranquillo e super bravo, ha scattato queste foto con noi (il concetto era Ballate per piccole iene, e le iene siamo noi) e le nostre fidanzate e compagne – foto che tra l’altro viste con il senno di poi rivelavano molto dei rapporti che avevamo con loro. Ma quando le abbiamo dovute assemblare per creare la copertina del CD ci siamo accorti che saremmo venuti troppo piccoli e l’insieme di quelle pose plastiche dava l’effetto delle prove di un corpo di ballo alternativo. È allora che abbiamo pensato, seguendo un’idea di Thomas Berloffa, il nostro grafico che allora lavorava per lo Studio Forcolini, di togliere tutti gli elementi umani dalla foto, usare un pennarellone nero per coprire tutta la carne, la parte umana, e lasciare visibile soltanto l’oggettistica, il cuoio, il divano, gli stivali, tutto il resto coperto. Quando l’abbiamo fatta vedere a Forcolini, il suo commento è stato: “Bah, mi sembra una stronzata”. Galvanizzati da questo suo commento, abbiamo contattato Guido Harari e gli abbiamo chiesto il permesso: per violentare così le sue immagini dovevamo avere per forza la sua autorizzazione. Lui è stato fantastico, anche perché quello che stavamo facendo era una cosa pesante: aveva fatto dei ritratti, fra l’altro bellissimi, e noi glieli stavamo sfigurando completamente, però il senso dell’operazione era proprio questo, sfigurare qualcosa di bello. A lui non è l’idea non è piaciuta ma l’ha accettata di buon grado perché c’era dietro un concept. E per non avere quattro immagini troppo piccole in copertina abbiamo fatto quattro copertine diverse, con le altre tre foto nel libretto interno, un’opzione piuttosto costosa per cui dalla casa discografica ci avranno maledetto per mesi…».

Discorriamo un po’ di tutto, dal mio paese d’origine che Manuel conosce per averci suonato quando era agli esordi, in un circolo dove avevano suonato anche i Not Moving, o della vita di provincia che Manuel aveva fatto qualche anno prima, quando era lui bambino, e a cui è tornato in questi ultimi tempi. «Ho avuto un’infanzia molto felice, è stata una gran fortuna e un grande merito dei miei genitori. Da una parte ho sviluppato un certo narcisismo per il fatto di avere avuto tanta attenzione intorno, dall’altra tutto questo mi ha insegnato che è possibile essere felici. [La felicità] so cos’è, so che c’è, so che vale la pena, anche se poi ho fatto fatica a ritrovarla, ma rimane un obiettivo più importante di altri. Si è un po’ persa questa cosa dello stare bene per davvero. Oggi c’è un materialismo cosmico che ti porta ad accumulare, fare, ma non ti fa vivere. Per questo l’anno prossimo voglio andare in giro per il mondo: so benissimo che è un privilegio, ma avrò sessant’anni e me lo sono anche un po’ guadagnato.»

Questo vorrà dire anche mettere il tasto pausa a tutta una serie di impegni a livello di media: «La radio [Radio 24] sicuramente mi offrirà di fare un’altra stagione perché la trasmissione [Leoni per Agnelli] sta andando molto bene. Però è probabile che fra settembre e gennaio riuscirò a portare avanti una parte del programma e a registrare il resto, ed è qualcosa che posso gestire tranquillamente. La tv non la farò. Niente X-Factor. La musica sì come sempre, ma è una parte del fare quello che voglio: stare a casa a comporre, suonare, registrare. E poi capiremo se tornerò a teatro: il teatro ha tempi lunghissimi, sto parlando con un paio di produttori diversi. Con Valter Malosti, il regista di Lazarus, stiamo parlando di fare altre, lui ha in mente Brecht, ma non credo che se ne parlerà prima del 2027».

Prendo spunto da un pezzo di Ballate per piccole iene, Carne fresca, per parlare di un altro progetto di oggi. «Allora, Carne fresca intanto è un’idea di Francesca Risi, una dei soci di Germi. Anche il nome è un’idea di Francesca. Io mi ci sono buttato perché mi ha fatto rinascere la passione per Germi stesso, gli ha dato un ruolo un po’ meno effimero del solo fare cose belle, il laboratorio e così via. Così diventiamo un punto di riferimento che serve veramente a qualcuno. La cosa ci è addirittura scoppiata in mano perché abbiamo scoperto che c’è una scena gigantesca che non sa di essere una scena: molti dei gruppi non si conoscono, altri stanno già cominciando invece a fare rete. Per esempio il cantante dei Grida, un gruppo di Modena, ha fatto una sorta di censimento dei gruppi della sua zona, che sono più di cinquecento. In due mesi e mezzo abbiamo ricevuto qualcosa come settecento richieste, tant’è che raddoppieremo le rassegne, ne faremo due al mese a partire da settembre, una non basta più. Abbiamo la gente fuori in coda che non riesce a entrare per vedere dei gruppi sconosciuti, qualcosa che non succedeva più da anni. Adesso ci sono solo grandi eventi e celebrazioni – com’è anche la nostra di Ballate per piccole iene: stiamo facendo delle prevendite clamorose, con numeri pazzeschi, perché quella roba lì paga. Ma è bello che ci sia anche un ritorno alla curiosità, e che ci sia chi si prende il rischio di andare a vedere qualcosa che non conosce e magari potrebbe anche non piacergli. Secondo me all’interno di queste proposte ce n’è un buon trenta per cento che ha il livello di talento necessario per determinare una scena di rilievo. Non vale la pena di ascoltarli soltanto perché è roba fresca, perché sono ragazzi, ma perché c’è del vero talento. Molti sono derivativi, ma sono giovanissimi e avranno tutto il tempo di sviluppare un loro percorso; altri hanno già rifrullato le loro influenze e stanno tirando fuori qualcosa che se non è originale è almeno personale».

Sui giovani d’oggi non ci scatarra più? Forse no, non sui giovanissimi, ma c’è un’intera generazione di musicisti a cui il Manuel di oggi e anche quello di ieri ha qualcosa da rinfacciare. «Questi di oggi sono i nostri “nipoti”, non i nostri “figli”, e sono più simili a noi di quanto non lo sia stato il ciclo generazionale venuto appena dopo il nostro. Io ce l’ho a morte con quelli che hanno più o meno la tua età… Di che anno sei tu, del 1978? Perfetto. Diciamo, per prenderla un po’ larga, quelli che oggi hanno dai trentacinque ai cinquant’anni. Ce l’ho con loro perché tutto quello che avevamo costruito noi facendoci il culo l’hanno usato e ci hanno sputato sopra, ci hanno rinnegato completamente e non hanno portato un cazzo di nuovo. Un contesto con decine di festival, centinaia di locali, un pubblico di migliaia di persone, una scena che viveva di vita propria e di una vita parallela al sistema mediatico: noi non avevamo bisogno di andare in televisione o in radio, non avevamo bisogno di nessuno…. Io la casa me la sono comprata allora, e quindi quella scena era qualcosa che ci permetteva veramente di vivere e ha rappresentato una piccola rivoluzione nella musica italiana. Tutto quello è sparito. Non ci sono più club, si disertano i centri sociali, festival ce ne sono ma sono più internazionali che italiani. In più la generazione che ci ha seguito era formata da gruppi molto più derivativi di noi e dei nostri coetanei, perché avevano Internet e quindi accesso a informazioni che noi ci sognavamo, ma, ed è paradossale, in maniera fin troppo precisa. Sapevano come avere esattamente quel tipo di suono, quel tipo di scrittura, quel modo di atteggiarsi a livello attitudinale, identico ai loro ispiratori: è mancata secondo me proprio la parte dello sviluppo personale. Ho incontrato di recente un chitarrista che ha fatto parte di un gruppo di quella scena ma non ti dico chi è. Tra l’altro lui a me piaceva molto come musicista. Gli ho chiesto che cosa stava facendo adesso. E lui mi ha risposto che non suonava più. Perché? Mi ha detto: “Perché non ho niente da dire e non ho mai avuto niente da dire”. E questa secondo me è la fotografia del ciclo generazionale che è venuto dopo il nostro. Te lo dico non per fare polemica gratuita ma perché sono arrabbiato per quello che si è perso in questi anni. Nomi non li faccio, se fossero ancora forti e grandi forse li farei, in questo caso no. Considera pure tutta la scena italiana che è arrivata dopo la nostra, dai Duemila in poi fino ai Dieci. Quella scena ha distrutto tutto, ha reso tutto vano, era tutta estetica, tutta attitudine».

Un bersaglio molto ampio, ma le nuove leve per cui Agnelli si spende e in cui crede sono diverse: «Sono ragazzi molto più concreti, hanno una situazione sociale più simile alla nostra, con aspettative molto meno rosee, per cui si possono fare meno pippe. Sono ragazzi meno viziati – culturalmente e socialmente – che vivono in un periodo storico di merda a cui devono reagire. Sono molto simili a noi anche dal punto di vista attitudinale, estetico; per loro è importante il contenuto prima di tutto, non “l’attitudine”; vedi ragazzi che suonano new metal o elettronica, new grunge, punk o post-punk, ma che stanno insieme e sanno fare gruppo, fanno “sistema”, e per questo penso che questa scena nel giro di tre-cinque anni sarà la nuova wave.» Molti di questi ragazzi apriranno le prossime date degli Afterhours e suoneranno in vari eventi in tutta Italia. «Nel tour di Ballate faremo suonare in apertura due gruppi per ogni serata, in totale si esibiranno in trentaquattro; al Festival di Trento, sul palco di Radio 24, ci saranno altri cinque gruppi di Carne Fresca; a Radio 24 ho imposto di avere in chiusura di ogni puntata del programma un gruppo che presenta un pezzo, al Milano Film Fest dove Germi farà da direttore artistico per la parte musicale ci sarà un palco dove suoneranno due gruppi al giorno. Stiamo cercando non solo di farli suonare da noi ma di creare un network con altri posti come Germi che esistono, anche se magari hanno meno visibilità, perché le band che abbiamo selezionato vadano a suonare in giro per tutta Italia».

Carne Fresca eredita la vocazione a fare rete di altri progetti “collettivi”, come il festival Tora-Tora e la compilation Il paese è reale, legata alla partecipazione degli After a Sanremo, che avevano visto Manuel in prima linea nel promuovere tutta una scena musicale insieme alla sua band. Veniamo al suo ruolo che è più “un pensiero malvagio” secondo i tanti detrattori: quello di giudice di un talent come X-Factor, un’esperienza che ha aumentato esponenzialmente la sua popolarità e gli ha attirato anche moltissime critiche, soprattutto dai seguaci dal suo vecchio ambiente. Gli chiedo di tracciare un bilancio a oggi di questa sua avventura, sottolineando che continuo a nutrire perplessità sul format del talent: «Il talent in sé è stato secondo me frainteso, il suo scopo non è quello che si promuove, cioè la possibilità per qualcuno di diventare famoso da un giorno all’altro perché scopriamo in lui un talento speciale. Sarà successo sì e no quattro o cinque volte. La verità è che il talent è uno spazio pubblico in cui si può andare a portare un’opinione e un punto di vista, ed è quello che ho fatto io». Per te è stato un po’ come il Sanremo che hai fatto all’epoca? «Ma a Sanremo non parli di musica. Sali sul palco, ti esibisci e finisce lì. A X-Factor parli di musica per ore. Quindi hai la possibilità di presentare un modo di viverla che è diverso da quello che si vede in televisione. E poi posso assegnare i pezzi: sai quanta gente mi ferma per strada e mi dice, “Grazie che mi hai fatto conoscere gli XTC” o i Gang of Four… Sono piccole cose, è vero, però sono importanti: non è che siccome non sono una rivoluzione allora non bisogna farle. L’esperienza mi portato a provare tutto, e poi sì mi hanno dato anche tanti ma tanti soldi che mi hanno permesso non di costruirmi sette piscine, ma di fare tanti progetti, il teatro, la radio, altra televisione (ho fatto ossigeno per due anni su Rai 3), e di essere più libero. Anche se la cosa più importante che ha fatto la tv per me è un’altra: è riuscita a rimettermi in mezzo alla gente senza che io dovessi accettare nessun compromesso con me stesso, la mia personalità, il mio carattere. Ho sempre voluto stare tra le persone, e ti parlo da essere umano, non da musicista, però la verità è che non ho mai accettato, da ragazzino così come anche da adulto, i compromessi che sono necessari per questo, perché in un modo o nell’altro ti devi adattare e io non sono mai stato capace di farlo. X-Factor mi ha celebrato per la merda che ero [sic], e mi ha fatto diventare… un figo! Sono diventato nazionalpopolare, ormai mi riconoscono e mi salutano le nonne, i bambini, ma sono diventato così rimanendo la merda che ero. Mi amano per la merda che sono ed è stupendo, è proprio una sublimazione. La televisione a cinquant’anni, in un periodo in cui tutti si rinchiudono, è stata una liberazione pazzesca. E mi ha permesso di liberarmi, e qui sono ancora polemico, da un ambiente, quello alternative, con cui ho rotto i ponti andando lì. Un ambiente che trovavo ormai asfittico, pieno di regole, irrigidito, non più un oasi di libertà e di creatività, e poi meschino, fatto di persone con delle capacità limitate, con delle teste limitate, che facevano dei piccoli progettini segaioli… Uscendo da lì ho lavorato con dei grandissimi professionisti, che magari non fanno musica, o addirittura non capiscono un cazzo [sic!] di musica, ma nel proprio settore sono persone dotate di grandissima creatività e di grandissimo talento. Più conosco persone di alto livello professionale, più mi accorgo che sono anche persone umanamente ricche e che tendono a darti di più. Sono sempre state scelte di libertà le mie. La cifra che mi avevano offerto per fare ancora X-Factor e che ho rifiutato sarebbe sufficiente a convincere chiunque mi dà del venduto a uccidere tutta la propria famiglia a mani nude. E scrivilo pure… Chi ti inchioda a un’immagine è sempre qualcuno che a sua volta è rimasto inchiodato a un’immagine. È molto difficile che una persona con dei progetti grandi, che si sente realizzata, ti obblighi a rispettare un tipo di etica che nell’arte è una contraddizione in termini: l’artista si deve mettere in gioco sempre, è questo contraddittorio da un certo punto vista, ma necessario se non vuoi diventare il cartonato di te stesso. L’Italia [si riferisce al mondo della musica e dello spettacolo, NdSA], come tanti altri paesi, è rimasta incastrata in un’etica politica per cui diventare famoso era qualcosa di terribile. Ma la realtà è che la cultura è comunicazione se no non è un cazzo… – se no è solo il gioco di un’enclave di farisei che vogliono controllarla. Portare a più persone possibili tutto quello che fai deve essere il tuo progetto. Non so se mi spiego, il comunismo non è stato underground…».

Il teatro. Fino a metà giugno Manuel è impegnato con Lazarus, il musical scritto da David Bowie e Enda Walsh. «Il regista che mi dirige, Valter Malosti, è un amico personale di Enda Walsh, e quindi abbiamo avuto suggerimenti di prima mano su come potevamo riadattare lo spettacolo. Bowie non l’ha scritto per se stesso ma perché lo interpretassero degli attori: non sono quindi sul palco a fare lui ma recito nella parte che ha scritto. È una storia più emozionale che narrativa, non c’è un vero e proprio filo conduttore narrativo, anche se ci sono tante metafore che tutti noi che abbiamo un minimo di vita vissuta possiamo riconoscere: la distanza da noi stessi, da una casa metaforica che è un luogo di appartenenza, dalla famiglia se l’hai avuta o ce l’hai, la perdita dell’amore, il fatto di non riconoscersi più, sono tutte cose che sono espresse in maniera metaforica ma molto molto forte. È stata un’altra esperienza che mi ha liberato nata nello stesso periodo in cui ho cominciato a dire: “Faccio tutto quello che ho voglia di fare; qualcosa verrà anche male certo, ma chi se ne frega”. Anche qui è la televisione che mi ha dato il coraggio perché mi sono detto che una volta che avevo fatto X-Factor tutto il resto era in discesa. Ci ho provato ed è andata bene. Abbiamo fatto sessantasei repliche nella prima tournée, tutte esaurite, e adesso ce ne sono altre trentanove in questo secondo giro. Sul palco c’è una band di grandi musicisti: Jacopo Battaglia, degli Zu e Bloody Beetroots, Stefano Pilia – che oltre che con gli After e con i Massimo Volume ha suonato con Mike Watt e anche con Paul McCartney… –, Paolo Spaccamonti, Giacomo Rossetti. Robert Fox è venuto a vedere lo spettacolo a Roma e ha detto che vocalmente e musicalmente la nostra è la versione migliore di Lazarus che lui abbia visto. Sulla recitazione non poteva esprimersi visto che sa un’acca di italiano… Comunque ho fatto una cosa che avevo voglia di fare, entrando dalla porta principale: il fatto c’era la musica, Bowie lo conosco da quando ho sedici anni ed è sempre stato un mio punto di riferimento, mi ha permesso di aggrapparmi a quello che conoscevo bene e mi ha dato coraggio.» Gli chiedo allora se ha mai avuto interesse nel fare l’attore. «Ma io l’ho sempre fatto, l’attore» mi dice ridendo. «Il palco è casa mia, casa mia proprio a livello sensoriale, è il posto in cui mi trovo a mio agio e dove tiro fuori quello che non posso tirare fuori in società, anche i lati più brutti, più oscuri. È un luogo di libertà; per quanto riguarda il recitare dipende dal tipo recitazione di cui parliamo, certo non potrei fare Shakesperare; non sono un attore tecnico, sono un attore istintivo che sta interpretando una parte nella quale si riconosce, e così è un po’ più facile perché ho molti tratti in comune con il personaggio principale di Lazarus. Poi dipende dal regista e dal tipo di opera. Valter è un regista che vuole lasciarti essere te stesso nel modo di interpretare le cose. A livello di ritmi, di timbri, è vero ho imparato tantissimo, è stata una grande scuola, ma di base se hai un po’ di esperienza di palco e di televisione, i ritmi [per il teatro] li hai già, anche nel dialogo e nell’interagire con gli altri». Tutti questi cambiamenti “di palco” non lo hanno destabilizzato. «Io mi emoziono molto di più su un palco a suonare che a fare televisione. Il teatro è stato più simile a un concerto dove vado a raccontare cose che mi riguardano direttamente. Per quello critico sempre chi dice: “Sono un artista umile”. Vai a raccontare le tue cose davanti alla gente pensando che siano interessanti e sei umile? Sei un ipocrita, semmai. Il palco è un confessionale aperto: siamo un paese cattolico, tu puoi aver ucciso una persona, poi ti vai a confessare e sei a posto. Non andrai neanche all’inferno. Per me scrivere canzoni è una sorta di confessione: ti dico quanto sono merda e amen, pace fatta. I concerti faccio fatica a considerarli spettacolo. Invece la televisione per come l’ho fatta è spettacolo, è essenzialmente spettacolo, per me molto meno coinvolgente. L’ho fatta per la prima volta quando avevo già cinquant’anni di cui trentacinque passati in pubblico tra mille confronti e litigi. La difficoltà di X-Factor rispetto a Ossigeno, che era registrata – e quindi era facile, sbagliavi e rifacevi –, è che sono tre ore di diretta durante le quali se dici qualcosa di sbagliato sei fottuto perché ti mettono in croce ma se non dici niente sei fottuto lo stesso perché sei noioso, quindi deve essere superattivo, presentissimo, velocissimo per tre ore e in più, è una gara. Non è una situazione dove tutti aiutano tutti, siamo tutti contro tutti. È anche stimolante, lo so che da dire è una cosa un po’ perversa, ma sai cosa mi ha convinto a fare X-Factor per la prima volta, dopo che l’anno prima avevo rifiutato?».

Mi mostra un video di John Lydon al programma tv inglese Jukebox Jury, una sorta di “talent” ante litteram fatto ascoltando dei dischi e dando un parere a caldo. «Lui alza il cartello come gli altri giudici, è uno stronzo mostruoso, per lui non ci sono hit ma sono tutti miss, e quando gli chiedono se gli piacerà mai qualcuno risponde: “La mia musica”. Quando l’ho visto ho detto “mmmh, interessante”. È delle cose che mi ha convinto a fare il talent. E l’altra sono i soldi sì. Soldi, tantissimi soldi, tantissimi soldi… Mi dicono sempre: “Devi pagare il mutuo”. Ma coi soldi che mi danno altro che mutuo, mi ci compro un motoscafo da mettere in salotto. Mi dicono: “È dura mantenere la famiglia…”. Ma qui non proprio neanche a livello di consapevolezza complottisti. Sto facendo lo scemo ma c’è anche una cosa importante da dire: adesso finalmente anche nelle scuole d’arte hanno cominciato a sviluppare una parte di management, che insegna come ottimizzare le produzioni come investire soldi per realizzare progetti. Era ora perché è quella conoscenza che ti aiuta fare le cose e a trovare I mezzi per poterle fare, altrimenti siamo alla volpe e l’uva: se non ci sono i mezzi allora non fai le cose. Quando facevo il giudice a X-Factor è uscito un disco che parlava di morte e di tumore: [Folfiri o Folfox, NdSA]. Io non ho mai modificato la mia musica per venderla, da nessun punto di vista. Quando siamo stati a Chicago da Steve Albini e Greg Calbi, tutto quel tour era sponsorizzato da Jack Daniel’s. Greg Calbi ha permesso di appendere lo striscione Jack Daniel’s nel suo studio mentre lo riprendevano a mixare una versione di La sottile linea bianca perché gli hanno dato 30.000 dollari. Se a Greg Calbi dici: “No, questo suono di rullante dovresti farlo un po’ più così” lui ti spara. Ma se gli chiedi di mettere il suo faccione per promuovere un festival e gli dai 50.000 dollari, lui probabilmente dice: “Datemi 50.000 dollari”. Steve Albini ha prodotto In Utero prendendosi 300.000 dollari. E quando si è lamentato che la Geffen aveva fatto remixare dei pezzi da Scott Litt perché non si sentiva bene la voce – e Scott Litt ha fatto dei mixaggi strepitosi, Heart-Shaped Box ha un mix incredibile – ricordo che Courtney Love aveva detto: “Sì Steve, però tu i 300.000 dollari te li sei presi”. Noi ci beviamo di tutto qua; però il concetto degli americani è: “Voglio avere la libertà di fare quello che voglio, punto”. Questo non vuol dire non guadagnare: l’ho imparato andando in giro con loro. Mark Lanegan, pace all’anima sua, stava al banchetto e vendeva i dischi, perché ne vendeva il quintuplo standoci lui. Sì. Mi ricordo la gente emozionata che diceva: “Mark, sta al banchetto, che figo!” Ma stava al banchetto per vendere i dischi. E aveva ragione».

Finiamo a parlare di Mark Lanegan, gli chiedo che ricordo ha di lui. «Dipende dai momenti, droga sì o droga no. Droga no era un gentiluomo meraviglioso, attentissimo poi, è stato il primo a scrivermi quando è morto mio padre. E poi come cantava… Cantava davvero piano per fare risuonare bene le note basse e ricordo che avevo problemi quando suonavo con i Gutter Twins – di cui gli Afterhours sono stati la prima backing band, un giorno forse uscirà un live che abbiamo registrato a Roma al Villaggio Globale in una sera in cui era venuto anche Morrissey a vederci, ma era andato per via per paura che le cacche dei cani gli sporcassero le scarpe (te lo giuro, sembra leggenda ma è vero). Quando andavo in giro con loro Greg voleva un volume assurdo mentre Mark canta a un volume inesistente. Quando suonavo non lo sentivo perché c’era troppo rumore, pensavo cantasse male, poi riascoltavo le registrazioni ed ero estasiato, era perfetto. Ricordo quando è venuto in studio a fare Pelle. Una storia pazzesca. Sono andato a casa sua e Shelly sua moglie (allora era la sua fidanzata), mi guardava come per dirmi “Ma tu sei pazzo”, perché lo stavo convincendo a cantare in italiano. Lei rideva, rideva. Io gli avevo messo giù tutto il testo in un italiano scritto all’inglese per fargli pronunciare bene le parole. Ha provato due volte e mi ha detto: “Sono pronto, andiamo”. E io: “Mark, veramente dovremmo provare un po’ di più”. E Shelly che mi guardava ancora e scuoteva la testa. Siamo andati in studio, ha fatto tre versioni tutte cantate da Dio. Poi ha detto: “Hai quello che ti serve”. “Ma Mark, veramente non ho quello che mi serve”. “No, no, così è perfetto”. “Ma devo dirlo io se è perfetto”. Alla fine sembrerà un po’ Mal dei Primitives ma è stato un grande piacere, e un grande onore. Lui aveva messo Padania tra i suoi dieci dischi preferiti del 2012. Continuava a dirmi che era un capolavoro, era venuto a vederci all’All Tomorrow’s Parties a New York, dove suonavamo su questo dock, in mezzo al pubblico, nascosto dietro una colonna per non farsi riconoscere. Alla fine del concerto viene da noi e Giorgio gli fa: “Ti ho visto, sei arrivato al secondo pezzo”. Lui lo guarda e gli risponde con il suo vocione: I don’t love you that much».

Finiamo qui dopo questo aneddoto e tanti pareri come al solito incisivi. Non sappiamo se si godrà davvero la meritata pausa, l’agenda è ancora molto piena, a partire dal nuovo tour celebrativo di Ballate per piccole iene che parte il 26 giugno da Bologna (qui le date). Ma in fondo lui si sente felice, e libero, così.

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