“That moment just happened”. Intervista ad Alan Sparhawk

That moment just happened. È una frase che arriva a un certo punto – e in un punto importante – di questa breve intervista. Però in tutte le risposte che ci ha dato Alan Sparhawk è un concetto che ritorna. Ciclicamente. Come un ritornello. Le cose accadono e noi dobbiamo semplicemente lasciare che accadano. Nel bene e nel male. Avevo un po’ di timore nel parlare con Alan. E non per lui, che negli anni in cui mi è capitato più volte di intervistarlo mi aveva anzi sempre colpito per la pacatezza, la modestia e la sensibilità con cui affrontava il rito delle chiacchiere con sconosciuti, oltre che per l’intensità sottotraccia che emanava in quegli stessi momenti. Doti che tra l’altro avevo visto rispecchiate e perfino amplificate la volta in cui, nel corso della stessa intervista, avevo avuto modo di parlare anche con Mimi, sua moglie e l’altra metà dei Low, la sua seconda voce naturale, per noi – nel senso di limitarci al campo musicale e non invadere il privato –, e per lui molto di più, sapendo anche delle vicissitudini personali che ha attraversato e che lei l’aveva aiutato a superare. Però Mimi c’è ancora nell’album appena uscito, intitolato spartanamente Alan Sparhawk with Trampled by Turtles, nato in due-giorni-due (o forse uno e mezzo) di “prove” diventate registrazioni insieme a un gruppo di amici di Duluth – che sono anche dei musicisti di prim’ordine con vent’anni di carriera discografica alle spalle e un certo seguito in America. C’è perché tre canzoni delle nove le avevano scritte insieme. C’è perché la voce che si ascolta in Not Broken è quella di Hollis, la loro figlia (e potete immaginare a chi somiglia; quando entra all’improvviso sembra proprio lei; ma come fai a dirglielo?). C’è il ricordo di lei e c’è anche il dolore – acuto e insopportabile – che diventa canzone, The Screaming Song, in maniera cruda, diretta, inaspettata e straziante. E in fondo Mimi – la sua assenza – c’era anche nelle scelte tortuose dell’album precedente, in quella voce resa irriconoscibile che però adesso sembra ritrovata anche nella sua dimensione più naturale – grazie all’aiuto di una band di amici e dei saggi consigli di un sound engineer. Nel giro di nove mesi Alan ha pubblicato due album che non potrebbero sembrare più diversi. White Roses, My God, un lavoro disorientante, tutto di elettronica home made a bassa fedeltà, registrato in solitaria, e quello appena uscito, acustico e molto più “tradizionale”, suonato con una band vera e che deve la sua riuscita proprio a questa dimensione corale. In realtà, come emergerà ancora più chiaramente durante l’intervista, sono due facce della stessa medaglia. Due risposte a un momento di crisi profonda, in senso artistico – non parla mai del suo lato più privato, né ci sembra giusto chiederglielo – ma legato intimamente alla scomparsa della compagna di una vita, familiare e musicale al tempo stesso. Due opere fatte soprattutto di momenti che accadono, come dice lui, spontaneamente, avventurandosi nell’ignoto da soli o provando nell’immediatezza, insieme ad amici con cui c’è un’intesa – umana e musicale – quasi telepatica. Sembrano due opposti ma lo sono meno di quanto sembra. «Quando è nato White Roses, My God non avevo neanche intenzione di realizzare un disco o di registrare canzoni. Stavo solo armeggiando e facendo un po’ di prove con degli strumenti che avevo nello studio. Mi sono sempre divertito a trafficare con drum machine e sintetizzatori, però per qualche ragione ho cominciato a lavorare tanto su certi setup che usano i miei figli nello studio di casa per fare rap. Abbiamo questo voice pitch che ti permette di fare cose veramente assurde, molto estreme. Ho cominciato a usarlo per cantare e mi è piaciuto, è stato molto liberatorio. Ero in grande difficoltà con la musica, non mi trovavo più a mio agio con la mia voce, non sapevo più chi ero e che cosa volevo fare. Quegli strumenti così diversi mi hanno liberato, il pitch portava veramente la voce in un’altra dimensione, ho scoperto un linguaggio fluido, nuovo. Provavo a vedere dove questa cosa mi portava, ho improvvisato anche i testi. Quando trovavo qualche spunto che sembrava interessante o già compiuto me lo segnavo e lo tenevo da parte. Dopo un po’ avevo accumulato tutta una serie di idee che ho fatto ascoltare alle persone che avevo più vicine, come i miei ragazzi. Quando Nat Harvie, il produttore con cui lavoro da un po’, li ha ascoltati e mi ha dato un feedback positivo dicendo che erano molto buoni, allora ho cominciato a pensare che forse potevano diventare un disco. Ma mi ci è voluto tanto tempo anche solo per capire se valeva la pena. Nel frattempo mentre stavo per concludere il lavoro su White Roses, My God, passavo un po’ di tempo con i Tramped by Turtles che sono vecchi amici, sono stato a un paio di loro concerti, sul loro tour bus, abbiamo cominciato a parlare dell’idea di fare ancora qualcosa insieme, come avevamo fatto in passato. Abbiamo pensato di provare alcune canzoni che avevo scritto e sapevo ch

Jun 3, 2025 - 23:30
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“That moment just happened”. Intervista ad Alan Sparhawk

That moment just happened. È una frase che arriva a un certo punto – e in un punto importante – di questa breve intervista. Però in tutte le risposte che ci ha dato Alan Sparhawk è un concetto che ritorna. Ciclicamente. Come un ritornello. Le cose accadono e noi dobbiamo semplicemente lasciare che accadano. Nel bene e nel male.

Avevo un po’ di timore nel parlare con Alan. E non per lui, che negli anni in cui mi è capitato più volte di intervistarlo mi aveva anzi sempre colpito per la pacatezza, la modestia e la sensibilità con cui affrontava il rito delle chiacchiere con sconosciuti, oltre che per l’intensità sottotraccia che emanava in quegli stessi momenti. Doti che tra l’altro avevo visto rispecchiate e perfino amplificate la volta in cui, nel corso della stessa intervista, avevo avuto modo di parlare anche con Mimi, sua moglie e l’altra metà dei Low, la sua seconda voce naturale, per noi – nel senso di limitarci al campo musicale e non invadere il privato –, e per lui molto di più, sapendo anche delle vicissitudini personali che ha attraversato e che lei l’aveva aiutato a superare.

Però Mimi c’è ancora nell’album appena uscito, intitolato spartanamente Alan Sparhawk with Trampled by Turtles, nato in due-giorni-due (o forse uno e mezzo) di “prove” diventate registrazioni insieme a un gruppo di amici di Duluth – che sono anche dei musicisti di prim’ordine con vent’anni di carriera discografica alle spalle e un certo seguito in America. C’è perché tre canzoni delle nove le avevano scritte insieme. C’è perché la voce che si ascolta in Not Broken è quella di Hollis, la loro figlia (e potete immaginare a chi somiglia; quando entra all’improvviso sembra proprio lei; ma come fai a dirglielo?). C’è il ricordo di lei e c’è anche il dolore – acuto e insopportabile – che diventa canzone, The Screaming Song, in maniera cruda, diretta, inaspettata e straziante. E in fondo Mimi – la sua assenza – c’era anche nelle scelte tortuose dell’album precedente, in quella voce resa irriconoscibile che però adesso sembra ritrovata anche nella sua dimensione più naturale – grazie all’aiuto di una band di amici e dei saggi consigli di un sound engineer.

Nel giro di nove mesi Alan ha pubblicato due album che non potrebbero sembrare più diversi. White Roses, My God, un lavoro disorientante, tutto di elettronica home made a bassa fedeltà, registrato in solitaria, e quello appena uscito, acustico e molto più “tradizionale”, suonato con una band vera e che deve la sua riuscita proprio a questa dimensione corale. In realtà, come emergerà ancora più chiaramente durante l’intervista, sono due facce della stessa medaglia. Due risposte a un momento di crisi profonda, in senso artistico – non parla mai del suo lato più privato, né ci sembra giusto chiederglielo – ma legato intimamente alla scomparsa della compagna di una vita, familiare e musicale al tempo stesso. Due opere fatte soprattutto di momenti che accadono, come dice lui, spontaneamente, avventurandosi nell’ignoto da soli o provando nell’immediatezza, insieme ad amici con cui c’è un’intesa – umana e musicale – quasi telepatica. Sembrano due opposti ma lo sono meno di quanto sembra.

«Quando è nato White Roses, My God non avevo neanche intenzione di realizzare un disco o di registrare canzoni. Stavo solo armeggiando e facendo un po’ di prove con degli strumenti che avevo nello studio. Mi sono sempre divertito a trafficare con drum machine e sintetizzatori, però per qualche ragione ho cominciato a lavorare tanto su certi setup che usano i miei figli nello studio di casa per fare rap. Abbiamo questo voice pitch che ti permette di fare cose veramente assurde, molto estreme. Ho cominciato a usarlo per cantare e mi è piaciuto, è stato molto liberatorio. Ero in grande difficoltà con la musica, non mi trovavo più a mio agio con la mia voce, non sapevo più chi ero e che cosa volevo fare. Quegli strumenti così diversi mi hanno liberato, il pitch portava veramente la voce in un’altra dimensione, ho scoperto un linguaggio fluido, nuovo. Provavo a vedere dove questa cosa mi portava, ho improvvisato anche i testi. Quando trovavo qualche spunto che sembrava interessante o già compiuto me lo segnavo e lo tenevo da parte. Dopo un po’ avevo accumulato tutta una serie di idee che ho fatto ascoltare alle persone che avevo più vicine, come i miei ragazzi. Quando Nat Harvie, il produttore con cui lavoro da un po’, li ha ascoltati e mi ha dato un feedback positivo dicendo che erano molto buoni, allora ho cominciato a pensare che forse potevano diventare un disco. Ma mi ci è voluto tanto tempo anche solo per capire se valeva la pena. Nel frattempo mentre stavo per concludere il lavoro su White Roses, My God, passavo un po’ di tempo con i Tramped by Turtles che sono vecchi amici, sono stato a un paio di loro concerti, sul loro tour bus, abbiamo cominciato a parlare dell’idea di fare ancora qualcosa insieme, come avevamo fatto in passato. Abbiamo pensato di provare alcune canzoni che avevo scritto e sapevo che avrebbero suonato bene in acustico. Poi abbiamo avuto l’occasione di farlo, un giorno erano in studio e avevano un momento libero in cui potevo raggiungerli e suonare con loro le mie canzoni per vedere se avrebbe funzionato. Non sapevo se ne sarebbe uscito fuori un disco completo, pensavo più a qualche canzone da pubblicare in una compilation o qualcosa del genere, ma è andato tutto alla grande, abbiamo registrato un po’ di pezzi e ci siamo messi d’accordo per ritrovarci in studio dopo un mesetto. Stessa cosa, un pomeriggio a disposizione per registrare un altro paio di canzoni. È stato tutto così semplice e veloce, e anche qui non c’era l’intenzione di fare un album ma di seguire l’istinto e vedere quello che sarebbe venuto fuori. Per cui è vero sono due dischi molto diversi, ma nati nello stesso periodo e semplicemente da delle idee.» Più ascolto il nuovo album, più cerco anche di scavarne il senso, e più mi sembra di scoprire dei musicisti in stato di grazia, in tutti i sensi. L’intensità e il sentirsi ribadire che è stata questione veramente di un paio di sedute improvvisate lasciano veramente sbalorditi. «È stato proprio così. Le registrazioni le abbiamo fatte quasi tutte in due giornate e ci sono volute poche settimane in più per mixarlo. I ragazzi del gruppo mi hanno capito al volo, spiegavo loro com’erano fatte le canzoni e cose ci potevamo mettere, e poi le abbiamo registrate in una o due take. Ovviamente ci conosciamo da tanti anni, so come lavorano e sapevo che sarebbe andata bene».

Alan Sparhawk
Alan Sparhawk, foto per la stampa (2024)

Ci sono due canzoni che all’ascolto colpiscono – direi al cuore – più di altre, per i ricordi che evocano. Una è Not Broken, in cui la (bellissima) voce femminile che canta il ritornello ricorda davvero quella di Mimi Parker ma è della loro figlia, Hollis. «È una canzone che stavamo scrivendo quando Mimi stava già molto male. Quel verso del ritornello “It’s not broken/I’m not empty” l’ha scritto lei. Quando ho provato a registrarla la cosa più importante per me era che non fossi io a cantarlo. E Hollis è stata così gentile da farlo per me.» E poi c’è The Screaming Song, una canzone di una potenza emotiva disarmante, per il dolore che evoca in ogni singola inflessione musicale e in ogni parola del testo. «Il testo è molto crudo, molto diretto. Quella canzone mi è uscita così, di getto, e mi ha colto di sorpresa. Non è che mi sono messo intenzionalmente a scriverla, non volevo nemmeno farlo, ma succede, succede che le cose ti escano fuori anche quando non sono preparate». Non era preparato nemmeno il potentissimo assolo di violino finale, una meraviglia lacerante. «Quando ci siamo messi a suonare ho detto semplicemente “La canzone fa così. Da da da. Questi sono gli accordi. Potremmo avere un’intro fatta cosi…” E poi ho detto a Ryan [Young, NdSA]: “Potresti fare, se vuoi, un assolo strumentale dopo che ho finito di cantare”. La discussione è stata tutta qui. Lui ha suonato quell’assolo subito alla prima take e ho sentito all’istante che era qualcosa di davvero speciale. Ryan è un musicista eccellente ed è molto viscerale, molto spontaneo, capisce subito come arrivare al centro delle emozioni di un pezzo. Sono quei momenti che succedono quando ci sono di mezzo della buona musica e dei brevi musicisti».

Sono altre due invece le canzoni che uniscono i due dischi, Heaven e Get Still. Gli chiedo se c’è un motivo per cui ha scelto proprio quei pezzi. «Ho pensato subito di fare Heaven: è molto breve, semplice, gira avanti e indietro su due accordi, pensavo che sarebbe stato facile farne una nuova versione con i Trampled by Turtles e infatti è venuta molto bene. Di Get Still avevo fatto una prova con la chitarra acustica, anche se non era granché, e ho voluto vedere se avrebbe funzionato». Credi che abbiano guadagnato qualcosa con i nuovi arrangiamenti? «Si certo, ogni canzone si arricchisce ogni volta che ne fai una nuova versione, qualcosa viene meglio, qualcos’altro viene semplicemente diverso. Suonare Heaven con i Tramped by Trutles è stato molto bello. I loro cori hanno qualcosa di magico. Se riascolto Get Still penso che, be’, potevo suonare un po’ meglio la mia parte di chitarra ma è stato comunque divertente. Mi ha fatto strano cantarla con la voce normale, senza effetto. Però è stato anche divertente, perché chiaramente era nata con un approccio alla scrittura completamente diverso. Quindi era interessante portarla in un altro contesto. Ho cercato di mischiare un po’ le carte, di far vedere come come due dischi completamente diversi erano fatti dalla stessa persona».

A questo punto torno un po’ all’inizio. La prima cosa che gli avrei chiesto se l’avessi sentito ai tempi di White Roses, My God sarebbe stato il motivo di tutta quella distorsione sulla voce. Ora che è tornato a usare la sua voce “pulita”, gli chiedo se le cose vanno meglio e lui, fortunatamente, ride (solo dalla registrazione mi accorgo di un I’m scared pronunciato mentre stavo ancora formulando la domanda). «Quando stavo registrando quel disco e cantavo, era ancora confuso, insicuro della mia voce, non sapevo se stavo facendo qualcosa di buono. Non sapevo se me la sentivo di cantare, ma mi ricordo di aver detto a me stesso: “Devo fidarmi delle persone che ho intorno”. Stavamo suonando insieme e tutti stavano dando il meglio. Quindi dovevo forse mettere un po’ da parte le mie paure, e avere fiducia. Ho ho pensato che quando magari mi sarei risentito dopo un mese, le cose sarebbero andate meglio. Mi sono detto: “Speriamo sia tutto ok”. Davvero non ero in grado di giudicare quello che facevo, il mio cervello non ne era capace, avevo una prospettiva completamente distorta. È stato Nat Harvie che mi ha aiutato a vedere meglio le cose, mentre lavoravamo al mixaggio. C’erano continuamente dei pezzi che volevo cambiare o rifare. E lui mi fermava: “No, questa è un’ottima take”. Oppure provavo a cambiare e lui diceva “No, funzionava meglio prima”. È stato importante avere qualcuno vicino che mi dava una mano a vedere le cose buone e quelle che funzionavano. Sono troppo dentro alla mia voce, la vedo da troppo vicino, e poi ci sono troppi ricordi. Troppe cose che sento mancare. È ancora strano per me cantare da solo, adesso mi sento più a mio agio dopo che ho fatto un po’ di concerti. Mi piace ancora cantare, e mi piace farlo al meglio. Quando suono i pezzi di White Roses, My God, sono solo con il microfono, c’è tutta un’altra connessione con il pubblico, per me questa è una novità, e mi piace molto. Si è strano, però spero che suoni bene… Anche se non lo so…».

AlanSparhawk & Trampled by Turtles
AlanSparhawk & Trampled by Turtles

Suonerà benissimo, può fidarsi anche del mio parere per quanto possa contare (ma immagino sarà lo stesso di molti che leggono). Aggiungo un ricordo personale: tanti anni fa avevo avuto modo di incontrare di persona lui e Mimi durante la promozione di C’mon. Avevamo parlato anche degli ascolti dei suoi figli che allora erano bambini e adesso sono cresciuti e suonano e cantano insieme a lui. Parliamo allora dei Derecho Rhtyhm Section, il gruppo in cui suona insieme a suo figlio Cyrus. Gli chiedo se dobbiamo aspettarci prima o poi un album. «Può essere, sì, finora abbiamo registrato dei pezzi e fatto tanti concerti dalle nostre parti. Quando Cyrus ha cominciato con il basso gli piacevano tanto l’hip hop, il funk, l’r&b. E io mi sono divertito a imparare per suonare con lui. Così è nato il nostro primo gruppo. Cyrus ha suonato con i Low nei nostri ultimi concerti e quando abbiamo fatto la serie Friday I’m in Low. Per i Derecho scrive tanto e ha tante idee, è un bel modo per lavorare insieme e imparare, a migliorare come musicisti. Cyrus è molto versatile, impara in fretta e… la cosa buffa è che non gli piace l’indie rock.»

A suonare in Italia in questi giorni c’è anche Cyrus. «C’è lui al basso, e poi Eric Pollard alla batteria. Eric era il batterista dei Retribution Gospel Choir, con cui suonavo anni fa. Siamo un trio di rock and roll elettrico, ma suono anche pezzi di White Roses, My God e di questo nuovo disco, e canzoni nuove che non ho ancora registrato.» Sul palco ci sono chitarre e sintetizzatori. «Sì per prima cosa canto con le backing tracks, il basso e la batteria, poi passo alla chitarra. Sono contento di suonare da voi, l’ultima volta che sono stato in Italia è stato molto bello e non vedevo l’ora di ritornare e di ritrovare tanti amici». Noi non vedevamo l’ora di riascoltarlo dal vivo, per curiosità e anche – soprattutto direi – per affetto.

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