Il mondo parallelo di Kevin Martin: dal punk al dub. L’intervista

Anche se negli ultimi tempi agisce essenzialmente come The Bug, Kevin Martin è un protagonista dell’indie del Regno Unito fin dai primi anni ’90. La sua prima band sono stati i God, gruppo jazzcore messo su con Justin Broadrick dei Napalm Death, col quale crea anche l’act di industrial hip hop Techno Animal; seguiranno poi Ice, Curse of the Golden Vampire, King Midas Sound, e altri gruppi minori. In una lunga chiacchierata con lui, abbiamo rintracciato le tappe fondamentali della sua carriera, e non solo dal punto di vista musicale. Un racconto quasi romantico, che è in sostanza la storia di chiunque cercasse di farcela in qualche modo, attraversando tutte le tappe della gavetta che si faceva negli anni ’80 e ’90. Lunedì 2 giugno potremo rivedere The Bug dal vivo per Jazz Is Dead, festival al quale aveva già partecipato nell’edizione del 2022. Quali sono stati gli eventi principali che hanno orientato le tue scelte artistiche negli anni? Come sei passato da un gruppo jazz core come i God a un act electro dub come The Bug, attraverso Techno Animal, Ice e altre band?… Beh, tutto nasce dal fatto che, purtroppo, ho avuto un’infanzia molto problematica. La mia famiglia era un disastro totale. Mio padre era violento con mia madre e con me, praticamente un mostro. La mia infanzia è stata disfunzionale, e l’unico modo che ho trovato per dare un senso a tutto questo è stata la musica punk. Mi ricordo che ero molto giovane, forse nove anni, quando un amico mi fece ascoltare per la prima volta l’album dei Sex Pistols. Restammo scioccati. Poi, qualche anno dopo, scoprii i Discharge, una band anarco-punk. Credo che i primi dischi che ho comprato siano stati i loro sette pollici. Per me, la musica punk è stata cruciale; ma ciò che mi ha davvero spinto a fare musica è stato il post-punk, band come Public Image Ltd., Killing Joke, Joy Division, Throbbing Gristle, 23 Skidoo. Anche i Birthday Party sono stati un’influenza enorme. Mi hanno fatto davvero decidere che dovevo fare musica. Passai dall’amare la rabbia e la filosofia del punk, da ragazzino, al DIY come adolescente. Insomma, com’è successo a tanti è stato il punk a darti la scintilla iniziale… Sì. Anche se all’epoca non riuscivo a razionalizzare il motivo per cui mi piaceva. Ora lo posso spiegare, ma allora era solo rabbia. Il punk alimentava quelle fiamme e capivo l’ira del punk perché io stesso ero arrabbiato per la mia situazione familiare. Ma fu la musica post-punk a farmi pensare davvero al fai da te. Molte cose di quel periodo mi ispirano ancora oggi. Se sono vegetariano, lo sono diventato anche per le idee dei Crass, e poi informandomi sull’argomento. Ironia della sorte, non mi è mai piaciuta molto la carne da piccolo, mia madre lo ricorda bene, ma il vegetarianismo come scelta politica delle band anarco-punk mi colpì profondamente. Ero un figlio unico molto silenzioso. Avevo un mondo interiore, e quel mondo era la musica. Mio padre era un musicista, suo padre era un musicista. Mia madre ascoltava heavy metal in ogni stanza della casa, quasi mi ha fatto odiare per sempre le chitarre. Ma il mio modo di capire il mondo è sempre stato attraverso la musica, ed è così ancora oggi. Ho dedicato la mia vita alla musica in modo quasi religioso, perché il mondo reale mi sembrava completamente sfasato. La mia unica soluzione era costruire un mondo sonoro parallelo. È quello che ho cercato di fare nel tempo. La musica era la mia terapia, lo è ancora. God Com’è iniziata la tua carriera musicale? Quando ho formato il mio gruppo, i God, vivevo a Weymouth. Mio padre mi aveva cacciato di casa a sedici anni; vissi per conto mio, arrangiandomi. Poi ci siamo trasferiti a Londra, dovevo avere vent’anni. Ma era quasi impossibile far decollare una band lì, la concorrenza era spietata, era tutto estremamente difficile. Tutti i cliché sul quanto sia dura iniziare a Londra sono veri. Così ho deciso di fondare un club. Avevamo un minuscolo impianto audio, un piccolo sound system, e trovammo una stanza sul retro di un pub a Brixton. Ogni settimana contattavamo artisti che ci piacevano e offrivamo loro la possibilità di suonare: “Abbiamo un locale e un impianto. Se suonate qui, vi diamo tutto l’incasso”. Non prendevamo nulla. I primi tempi furono un disastro, ma poi funzionò. Facemmo debuttare i Godflesh. Lì conobbi Justin Broadrick, ex Napalm Death. Divenne un grande amico e figura chiave nella mia vita musicale. Insieme formammo i Techno Animal e andammo in tour come God e Godflesh. Justin fu uno dei pochi a prendere sul serio le mie aspirazioni musicali. Aveva l’attrezzatura da studio, imparai tutto da lui. Ma fu molto importante per me in generale, mi riconobbi in lui anche come persona, e diventammo come fratelli. Poi sai, le cose cambiano. Ricordo in particolare che quando i God erano a fine corsa, in quello che sarebbe stato l’ultimo show, al Garage di Londra, invitammo Graham Sutton, il cantante dei Bark Psychosis, che stava iniziando a esibirsi col moniker Boymerang, come band d

May 27, 2025 - 16:30
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Il mondo parallelo di Kevin Martin: dal punk al dub. L’intervista

Anche se negli ultimi tempi agisce essenzialmente come The Bug, Kevin Martin è un protagonista dell’indie del Regno Unito fin dai primi anni ’90. La sua prima band sono stati i God, gruppo jazzcore messo su con Justin Broadrick dei Napalm Death, col quale crea anche l’act di industrial hip hop Techno Animal; seguiranno poi Ice, Curse of the Golden Vampire, King Midas Sound, e altri gruppi minori. In una lunga chiacchierata con lui, abbiamo rintracciato le tappe fondamentali della sua carriera, e non solo dal punto di vista musicale. Un racconto quasi romantico, che è in sostanza la storia di chiunque cercasse di farcela in qualche modo, attraversando tutte le tappe della gavetta che si faceva negli anni ’80 e ’90.

Lunedì 2 giugno potremo rivedere The Bug dal vivo per Jazz Is Dead, festival al quale aveva già partecipato nell’edizione del 2022.

Quali sono stati gli eventi principali che hanno orientato le tue scelte artistiche negli anni? Come sei passato da un gruppo jazz core come i God a un act electro dub come The Bug, attraverso Techno Animal, Ice e altre band?…

Beh, tutto nasce dal fatto che, purtroppo, ho avuto un’infanzia molto problematica. La mia famiglia era un disastro totale. Mio padre era violento con mia madre e con me, praticamente un mostro. La mia infanzia è stata disfunzionale, e l’unico modo che ho trovato per dare un senso a tutto questo è stata la musica punk.

Mi ricordo che ero molto giovane, forse nove anni, quando un amico mi fece ascoltare per la prima volta l’album dei Sex Pistols. Restammo scioccati. Poi, qualche anno dopo, scoprii i Discharge, una band anarco-punk. Credo che i primi dischi che ho comprato siano stati i loro sette pollici.

Per me, la musica punk è stata cruciale; ma ciò che mi ha davvero spinto a fare musica è stato il post-punk, band come Public Image Ltd., Killing Joke, Joy Division, Throbbing Gristle, 23 Skidoo. Anche i Birthday Party sono stati un’influenza enorme. Mi hanno fatto davvero decidere che dovevo fare musica. Passai dall’amare la rabbia e la filosofia del punk, da ragazzino, al DIY come adolescente.

Insomma, com’è successo a tanti è stato il punk a darti la scintilla iniziale…

Sì. Anche se all’epoca non riuscivo a razionalizzare il motivo per cui mi piaceva. Ora lo posso spiegare, ma allora era solo rabbia. Il punk alimentava quelle fiamme e capivo l’ira del punk perché io stesso ero arrabbiato per la mia situazione familiare. Ma fu la musica post-punk a farmi pensare davvero al fai da te.

Molte cose di quel periodo mi ispirano ancora oggi. Se sono vegetariano, lo sono diventato anche per le idee dei Crass, e poi informandomi sull’argomento. Ironia della sorte, non mi è mai piaciuta molto la carne da piccolo, mia madre lo ricorda bene, ma il vegetarianismo come scelta politica delle band anarco-punk mi colpì profondamente.

Ero un figlio unico molto silenzioso. Avevo un mondo interiore, e quel mondo era la musica. Mio padre era un musicista, suo padre era un musicista. Mia madre ascoltava heavy metal in ogni stanza della casa, quasi mi ha fatto odiare per sempre le chitarre. Ma il mio modo di capire il mondo è sempre stato attraverso la musica, ed è così ancora oggi.

Ho dedicato la mia vita alla musica in modo quasi religioso, perché il mondo reale mi sembrava completamente sfasato. La mia unica soluzione era costruire un mondo sonoro parallelo. È quello che ho cercato di fare nel tempo. La musica era la mia terapia, lo è ancora.

God
God

Com’è iniziata la tua carriera musicale?

Quando ho formato il mio gruppo, i God, vivevo a Weymouth. Mio padre mi aveva cacciato di casa a sedici anni; vissi per conto mio, arrangiandomi. Poi ci siamo trasferiti a Londra, dovevo avere vent’anni. Ma era quasi impossibile far decollare una band lì, la concorrenza era spietata, era tutto estremamente difficile. Tutti i cliché sul quanto sia dura iniziare a Londra sono veri. Così ho deciso di fondare un club.

Avevamo un minuscolo impianto audio, un piccolo sound system, e trovammo una stanza sul retro di un pub a Brixton. Ogni settimana contattavamo artisti che ci piacevano e offrivamo loro la possibilità di suonare: “Abbiamo un locale e un impianto. Se suonate qui, vi diamo tutto l’incasso”. Non prendevamo nulla. I primi tempi furono un disastro, ma poi funzionò. Facemmo debuttare i Godflesh.

Lì conobbi Justin Broadrick, ex Napalm Death. Divenne un grande amico e figura chiave nella mia vita musicale. Insieme formammo i Techno Animal e andammo in tour come God e Godflesh. Justin fu uno dei pochi a prendere sul serio le mie aspirazioni musicali. Aveva l’attrezzatura da studio, imparai tutto da lui. Ma fu molto importante per me in generale, mi riconobbi in lui anche come persona, e diventammo come fratelli.
Poi sai, le cose cambiano. Ricordo in particolare che quando i God erano a fine corsa, in quello che sarebbe stato l’ultimo show, al Garage di Londra, invitammo Graham Sutton, il cantante dei Bark Psychosis, che stava iniziando a esibirsi col moniker Boymerang, come band di supporto.

A noi piacevano loro, e loro apprezzavano i God. A quel tempo si stava iniziando a mixare la musica indie con ritmi jungle e drum’n’bass, per cui avevo anche invitato un sound system reggae, i Boom Shaka Sound System, con un gruppo chiamato Disciples. I God in quel periodo erano più di dieci sul palco, c’era un percussionista ghaniano, membri dei Terminal Cheesecake e degli Slab… Insomma una band enorme, e il soundcheck fu un disastro. Arrivò la polizia per le lamentele sul volume dei vicini. Gli amplificatori fumavano – anche se quella per i God non era una novità. Alcuni membri del gruppo non erano mai venuti alle prove e non avevano idea degli arrangiamenti…

Per farla breve, quando Boymerang iniziò a suonare, ci sono i fan dei God che gli tirano le bottiglie, a loro sembrava disco music e la odiavano. Poi suonammo noi, e poi i Disciples. Io ero convinto che facessero un buon live, poiché li conoscevo già, ma in realtà fu terribile perché tutti i nostri fan se ne andarono dopo i God, lasciando in sala 10 persone e i componenti della mia band.

Ma fu proprio in quel momento, vedendo suonare i Disciples, che accadde in me un cambiamento epocale. Mi ritrovai a pensare: ‘Sai che c’è? Tutto quello che voglio fare nella musica, loro lo fanno già con l’elettronica e un sound system. Questo è ciò che voglio, e così farò’. Fu quella sera che decisi di smettere con i God e iniziare un nuovo percorso. Subito dopo costruii un mio sound system, ispirato al loro.

È curioso che tu abbia menzionato Graham Sutton, te lo avrei citato io stesso come esempio di musicista con un background rock che negli anni ’90 sarebbe passato all’elettronica. O quasi, visto che i Bark Psychosis vengono considerati post-rock, ma Graham in seguito come Boymerang si dedicò esplicitamente al drum’n’bass. Molti artisti seguirono questo percorso: anche tu, dopo aver abbandonato le band con le chitarre, ti sei avvicinato all’elettronica. Ci hai spiegato quando avvenne, ma qual è il vero motivo di questo cambiamento?

Bella domanda. Penso che Kevin Shields dei My Bloody Valentine, che era amico e fan dei God, ed era stato un nostro tecnico del suono, fu probabilmente il primo a farmi scoprire la jungle. Una volta andai a casa loro e mi fecero ascoltare delle cassette registrate dalla radio e dei video da MTV: fu uno shock.

In realtà già nei God l’influenza del dub e dell’hip hop era fortissima, così come quella di Miles Davis nei primi anni ’70, quando metteva molta elettronica nei suoi dischi, specialmente nei suoi lavori con Teo Macero. C’era un inevitabile rimando ai 23 Skidoo, alle produzioni di Martin Hannett per i Joy Division, ai Killing Joke. Avevo anche un sintetizzatore Roland SH-101 fin da quando vivevo a Weymouth, quindi ero già attratto dall’elettronica. Ma vivere a Londra in quel periodo… la jungle era rivoluzionaria, come un’esplosione sonora, qualcosa di mai sentito prima. Esattamente quello.

Era incredibile, era il futuro. E poi, c’è stata un’altra svolta quando assistetti al mio primo sound clash reggae tra i Disciples e gli Iration Steppas. Fu pazzesco, come una guerra sonora: psichedelico, fisico, incredibile. Capii da dove avevano preso il suono gente come Mark Stewart. Fatto sta che da lì in poi, il dub, come musica ma anche come filosofia e strategia, è diventato il centro di tutto ciò che faccio.

Una volta John Zorn, quando mi diede una mano a mixare l’album Possession dei God, mi suggerì di fare un mix in stile dub. Non ci avevo mai pensato prima, ma aveva ragione: troppa roba tutta insieme, senza spazio. Mi disse: ‘Devi fare spazio, de-costruire’. È una lezione che ho imparato anche quando dovevo produrre altri gruppi. In mancanza di esperienza, ho chiesto consigli ai tecnici ma ho sempre improvvisato, in fondo, come tanti nella musica underground: è questione di disperazione e sopravvivenza, come mi ha insegnato il punk.

Techno Animal
Techno Animal

Una filosofia di vita: farcela da solo

Ho sempre pensato che non avrei mai lavorato per nessuno. Perché dovrei far arricchire qualcun altro con il mio lavoro? La sfida è sempre stata: quanto a lungo posso fare musica senza cercare un ‘vero lavoro’? Non ho mai compilato un CV in vita mia. È vero. Non ho mai avuto molti soldi, e forse mai ne avrò. Ma non è importante. Quello che conta è essere felice e il fatto che sia riuscito a realizzare il sogno di fare musica per vivere è già un miracolo. E ora che ho una famiglia – cosa che non avrei mai pensato possibile – sono ancora più motivato.

Per anni ho pensato di non poter essere padre a causa del mio rapporto con i miei genitori. Anche Justin la pensava così. Ora ho due figli e una moglie. E sì, con i soldi che guadagno devo mettere il cibo sulla tavola. Ma non ho mai compromesso la mia musica.

Ho vinto la mia battaglia con mio padre. Se non avessi trovato mia moglie, se non ci fossimo amati così tanto da avere dei figli, allora mio padre avrebbe vinto. Ma ora sono un padre felice, un marito felice. Questo basta. È abbastanza per questa vita.

Anche la tua carriera musicale riflette questo schema: dopo aver suonato in vari gruppi, ora come The Bug sei da solo. Anche artisticamente ti trovi meglio da solo, rispetto a lavorare in una band?

Probabilmente sono una persona molto poco disposta al compromesso, e chi ha lavorato con me te lo confermerà. Nei God ero sempre in ansia di rendere tutti felici. Ma alla fine dissi: ‘Il missaggio non può essere democratico, o il disco sarà piatto’. Presi io tutte le decisioni.
Fare da solo mi ha reso ancora più maniaco del controllo. Mi sento un astronauta sonoro, esploro lo spazio tra i suoni. Voglio che la musica rifletta me, non che sia un compromesso.

Detto questo, ho collaborato con artisti incredibili. Ho smesso di cantare perché non ero bravo, e ho cercato voci che potessero esprimere quello che io non riuscivo a fare.

The Bug, foto di Caroline Lessire
The Bug, foto di Caroline Lessire

In un’altra intervista, hai detto che una svolta importante nella tua carriera è stata l’incontro con il dancehall. Puoi spiegare meglio?

Sì. All’inizio snobbavo il dancehall. Ero un po’ arrogante, lo consideravo musica cheap, poco raffinata. Ma poi ho sentito un riddim di Steely & Clevie, chiamato Street Sweeper, ripreso in due versioni vocali in particolare: Final Assassin di Capleton e Boomism di Buju Banton. Quelle basi erano il futuro. Nessuna melodia zuccherosa, solo potenza pura. Vocalizzi brutali, punk fino al midollo.

C’era stato anche un forte rifiuto del dancehall in Gran Bretagna, soprattutto dopo un’intervista di Shabba Ranks alla BBC in cui citava la Bibbia per giustificare l’omofobia. Questo fece sì che il dancehall venisse snobbato dai media e dal pubblico borghese. Ma a me, ironicamente, questo l’ha reso ancora più interessante – non l’omofobia, ovviamente, ma il fatto che fosse controverso, come il punk.

Il dancehall parla spesso di sesso e violenza, ma anche molti artisti rock o folk, come Bob Dylan o Nick Cave, trattano gli stessi temi e vengono considerati poeti. Invece i DJ del dancehall sono visti come misogini o che altro. È ipocrita.

Da parte mia, quello che mi attira in una musica è che ci sia quello che chiamo il “future shock”, il senso di qualcosa di completamente nuovo. È quello che ho provato con ascoltando la prima volta gli Swans, o i 23 Skidoo, e che poi ho provato nuovamente con il dancehall.

Mi sembra di capire che questo atteggiamento, la ricerca del nuovo nella musica, ce l’hai ancor oggi

Sì, io sono un drogato di musica ancor oggi. Non è cambiato, cerco sempre qualcosa di nuovo che mi dia i brividi. Mi ricordo quando entrai da Rough Trade e avevano un white label di I Luv U di Dizzee Rascal, mi proposero l’ascolto, e mi esplose il cervello. Era grime, e da lì diventai ossessionato da quel genere.

Quindi non è un caso che la tua discografia come The Bug sia incredibilmente varia. Ogni album è diverso. Non si può dire che tu abbia un ‘genere’ preciso.

Sì, è intenzionale. Il primo album, Tapping the Conversation, nacque per diversi motivi. Già con i Techno Animal, nell’album Re-Entry, c’erano brani che erano immaginarie colonne sonore, e volevo fare proprio quello. Da poco ero diventato amico di Skiz, il boss della WordSound, che mi aveva dato carta bianca per pubblicare qualcosa sulla sua label. Così creai il disco, ispirato al film The Conversation, coinvolgendo DJ Vadim per i beat, perché ero un suo fan.

Lo stile live di The Bug invece è nato in un modo particolare. Quando iniziai a lavorare al primo album a nome Ice, avevo avvertito la label che non sarebbe stato possibile fare concerti dal vivo con tutti quegli ospiti (El-P, Blixa Bargeld, gli Anti-Pop Consortium, etc.). Ma poi, dopo un missaggio che non finiva mai, cominciarono ad agitarsi perché non vedevano il prodotto finito e cambiarono idea: “O suoni dal vivo o non ti paghiamo il resto dell’anticipo”. Dopo un attimo di panico, rilanciai: “Datemi 10.000 sterline in più e costruisco un sound system per suonarlo come progetto dub”. E accettarono! Così è nato The Bug dal vivo. Quasi per caso, ma come ti ho detto, io amo navigare nel caos: ero al limite, visto che non avevo un soldo, ma sono riuscito a ripartire. Non so se sia stata la disperazione o la testardaggine, ma nella mia incessante lotta all’industria musicale ce l’ho fatta ancora una volta.

In questo passaggio dalla band all’act solista, hai percepito anche un ricambio nel pubblico, che magari viene al concerto solo per scatenarsi in pista?

Il cambio c’è stato a vari livelli. Ho dovuto ridurre il suono all’essenziale per fare in modo che funzionasse su un sound system. La musica si doveva orientare un po’ di più verso la dance, e in quello mi ha aiutato l’esperienza dei Techno Animal in un tour che avevamo fatto per conto della Mille Plateaux, insieme a Porter Ricks. Era stata un’esperienza fantastica, avevamo visto concerti di Plastikman, Jeff Mills, eravamo sconvolti… nel pubblico c’erano delle donne (!), invece dei soliti tipi vestiti di nero. Ma c’era anche questa voglia di superare le barriere, di non rimanere confinati nella propria tribù di appartenenza.

E questa idea di contaminazione dei generi è una cosa che ho sempre perseguito, anche se paradossalmente rispetto molto l’idea di mantenere la purezza in uno stile. Quello che vorrei è che mi si riconoscesse un’originalità.

Kevin Martin, The Bug
Kevin Martin, The Bug

Quando suoni dal vivo, pensi alla gente sul dancefloor? Vuoi farli ballare o ti limiti alla sola espressione artistica personale?

Questa è un’ottima domanda… Una volta, dopo aver suonato in un festival, un tipo mi ha detto: “Non ti importa niente del pubblico, vero?”. E io ero scioccato. Con i God volevo che la gente uscisse dai concerti sentendo la mia rabbia. Ma con The Bug voglio che la gente si muova, anche in modo brutale. Ma non mi comprometto. Se ballano, bene. Ma non cambierò ciò che faccio per farli ballare.

Mi agito in studio mentre compongo, ballo da solo. Spero solo che anche altri lo sentano. Forse è solo illusione, ma è quello che provo. Quando ho composto The Machine, volevo trovare un nuovo vocabolario per il dub, qualcosa che non avevo ancora sentito. Molto dub moderno mi sembrava vecchio. Volevo qualcosa che colpisse forte.

Nei pochi show che ho fatto finora, nelle ultime settimane, ho avuto esperienze tipiche. In Olanda ho suonato davanti a 3000 metallari, ed ero terrorizzato. Nessuna band sul palco, solo io e la mia elettronica. Eppure è andata benissimo. Poi in Belgio, a un festival dance super commerciale, con un pubblico giovane. Pensavo: “Qui mi distruggono”. Ma anche lì ha funzionato. Alla fine, alcune persone semplicemente non sono pronte. E va bene così.

Funzionerà così anche nel prossimo concerto al Jazz Is Dead? Chissà: vedere per credere.

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