Ugo Crepa, “Grande, non ancora” è il suo album: “Milano mi ha dato l’idea di fare questo mestiere, anche se da noi a casa la domenica è come a Napoli, con il ragù e le patate al forno” – Intervista Video

“Grande, non ancora” è il titolo del primo album di Ugo Crepa, uscito venerdì 16 maggio su tutte le piattaforme digitali per Futura Dischi, distribuito da peermusic ITALY. Un concept album composto da 8 tracce che raccontano un momento delicato della vita, quello in cui si è costretti a crescere, ma non ci si sente ancora pronti. Il […]

May 27, 2025 - 17:20
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Ugo Crepa, “Grande, non ancora” è il suo album: “Milano mi ha dato l’idea di fare questo mestiere, anche se da noi a casa la domenica è come a Napoli, con il ragù e le patate al forno” – Intervista Video
Ugo crepa

“Grande, non ancora” è il titolo del primo album di Ugo Crepa, uscito venerdì 16 maggio su tutte le piattaforme digitali per Futura Dischi, distribuito da peermusic ITALY.
Un concept album composto da 8 tracce che raccontano un momento delicato della vita, quello in cui si è costretti a crescere, ma non ci si sente ancora pronti. Il filo conduttore del disco è nato in modo naturale e spontaneo, traccia dopo traccia, lasciando che la scrittura seguisse il flusso delle esperienze vissute. Al centro c’è il tema del tempo che passa, della quotidianità, delle piccole e grandi trasformazioni che accompagnano il passaggio all’età adulta.

Il disco nasce da un’esperienza personale: a 29 anni, poco prima dei 30, Ugo Crepa si trasferisce a Milano e si trova a fare i conti con una nuova vita. Vive da adulto, affronta responsabilità e impara a badare a sé stesso, ma dentro continua a sentirsi “piccolo”. Ed è proprio questo il cuore del progetto: l’eterno conflitto tra il desiderio di crescere e cambiare e quello, altrettanto forte, di restare fedeli a sé stessi. Grande, non ancora è un disco che parla a tutti: tra relazioni che finiscono o cominciano, momenti di quotidianità, incontri fortuiti e riflessioni sul tempo che scorre, ognuno può ritrovarsi nelle sue parole. Perché, in fondo, tutti ci siamo sentiti così almeno una volta: sospesi tra ciò che siamo e ciò che ci aspettiamo di diventare. Noi di SuperGuidaTv abbiamo intervistato Ugo Crepa e con lui abbiamo parlato del suo disco ma anche di molto altro.

Ugo Crepa – Intervista

Ugo, partiamo dal titolo: “Grande, non ancora”… Cos’è che ti fa sentire “non ancora grande”?

“Il contesto di vita, principalmente, cioè nel senso che non mi sento minimamente realizzato, ma questa è anche una fortuna, in qualche modo, e quindi credo semplicemente di dover crescere ancora molto per far sì che questa cosa accada. Quindi grande, perché magari, anagraficamente, perché magari per quello che faccio, anche il percepito musicale, posso essere definito grande, ma non ancora per niente”.

Questo è il tuo primo album, dopo tanti singoli e collaborazioni: che peso ha per te questa uscita?

“Non ho ancora realizzato la cosa in maniera razionale, però fino al giorno prima che uscisse ero convinto che fosse, appunto, la mia uscita più importante, ovviamente, perché è il primo disco, diciamo che non riesco a darle un peso specifico, sicuramente è un bel punto a cui arrivo, era una cosa che quando da piccolino pensavo vorrei fare il cantante, vorrei scrivere le canzoni, sognavo di fare un disco. E ci sono arrivato, è soddisfacente, qualsiasi sia il risultato”.

Il disco racconta un momento molto specifico della tua vita: quello in cui cresci ma non ti senti pronto. Com’è stato trasformare questa sensazione in musica? Ti sei mai chiesto: “sto raccontando troppo?”

“Oh, bella questa domanda. Allora, parto dalla seconda: non me lo sono mai chiesto perché non conosco un altro modo di fare musica, se non quella di mettermi completamente a nudo, o meglio, è una cosa che va allenata, quella di non mettersi a nudo, nel mio caso, ci provo ogni tanto perché secondo me è importante avere più carte a disposizione, però no, sento di raccontare troppo poco, spesso, dovrei fare un disco di 65 tracce, 65 canzoni per raccontare tutto quello che mi passa per la testa. Il disco è volutamente piccolo, di 8 tracce perché credo di aver compresso e condensato tutto abbastanza bene, per quello che volevo dire, e quindi sì, spesso sento di star raccontando troppo poco”.

Com’è stato trasformare questa sensazione in musica?

“In realtà, ti dirò, il disco è nato in un modo, con un’idea di voler raccontare una specie di concept, che però poi alla fine non ho trovato, o meglio, l’ho trovato alla fine, cioè il disco si è scritto un po’ da solo, perché comunque ha un anno di lavoro alle spalle, quindi sono passati dei mesi anche tra una canzone e l’altra, e mi sono poi reso conto che c’era questa ridondanza, che in realtà è un termine sbagliato perché non mi suona ridondante, però ci sono molti riferimenti a questo tipo di crescita, appunto, e quindi ho pensato che fosse il concept più giusto perché si è chiamato da solo”. 

Il tema del tempo che passa è centrale: ti spaventa più il futuro o il passato?

“Il passato, perché lo conosci, il futuro no, perchè non puoi essere spaventato da una cosa che non conosci. Ieri parlavo con un amico che stavamo chiacchierando del nulla, a un certo punto ci facevamo delle paranoie su una cosa che dovrebbe succedere per un paio di giorni, e mi ha risposto in una maniera splendida, ha detto questo è un problema di noi del futuro, quindi deve preoccuparsene adesso, ed è letteralmente questo il punto, quindi il passato mi spaventa perché il passato spesso torna in qualche modo, in varie forme, e può essere un problema, il futuro che ne so”.

Il disco nasce anche dal tuo trasferimento a Milano. Cosa ti ha dato – e tolto – questa città? Quanto è stato importante avere una rete umana intorno?

“Mi ha dato l’idea di fare questo mestiere, cosa che laggiù era un po’ più difficile, per mille motivi che non riguardano soltanto la città ma anche il modo in cui uno vive in una città, e mi ha tolto quella che è la mia immaturità, che è il permesso di essere immaturo, quindi ti dà delle responsabilità inevitabilmente perché devi, uso un termine meno, più napoletaneggiante che è campare in qualche modo, non che giù non avvenisse però hai il nucleo familiare che ti dava comunque una mano in qualche modo, su sei un po’ più solo ovviamente, però lo dico sempre, spesso quando parlo con persone che si sono trasferite a Milano da magari poco o tanto, che sono sole o comunque hanno costruito una rete di amicizie nel tempo, a noi salva veramente la vita il fatto che siamo sei amici che si conoscono da dieci anni, qualche anno in meno qualcuno, però più o meno lì, e quindi da noi la domenica è Napoli, la domenica le partite, il ragù è quello che è, le patate al forno è quello che è, quindi è stato fondamentale, penso che non avrei resistito a Milano”. 

L’intero album è prodotto da foolviho, tuo amico da sempre. Com’è lavorare con qualcuno che ti conosce così bene?

“Come lavorare con se stessi? Molto divertente il fatto che il lavoro non sia un lavoro, nel senso che conoscendosi, e parlo anche degli altri, la musica viene fatta per gioco, ed è soprattutto un tema centrale delle nostre giornate proprio nel quotidiano, nella chiacchiera, quindi le idee nascono in maniera estremamente spontanea, la realizzazione altrettanto, ci sono tante cose che non sono uscite in questo disco che però abbiamo in serbo da far uscire, proprio perché è un continuo brainstorming, un continuo ragionamento, quindi sì, è la cosa più bella, penso che il lato più bello della nostra musica è proprio farla con le persone a cui vuoi più bene. Raggiungere un risultato tutti insieme è una conquista vera”.

Hai collaborato con artisti come Willie Peyote, Eugenio in Via Di Gioia, DJ Craim, Calmo… Sono incontri casuali o cercati?

“Diciamo che il mio continuo ricercare ha fatto sì che la casualità ci venisse in contro, nel senso che ci sono amicizie in comune, ci sono sessioni spuntate dal nulla, un giorno prima per un giorno dopo, per fare altro che poi diventano una canzone che va nel mio disco, e quindi diciamo che il continuo voler crearsi uno spazio all’interno di questo ambiente che è appunto la discografia, fa sì che poi capitino delle cose veramente belle, come le tracce con queste persone che sono state veramente spontanee. Io quello che dico sempre è che quando io e Eugenio in studio abbiamo giocato letteralmente, è stata una cosa bellissima”. 

C’è una collaborazione che ti ha spiazzato, che ha portato il brano in una direzione inaspettata?

“Diciamo che una delle canzoni che più mi ha dato una mano e a cui sono più affezionato è stata quella con Dutch di qualche anno fa, che si chiama “Non mi vuoi più bene”, per il semplice motivo che è stata una persona che forse ci ha visto più lungo all’inizio, che ha detto io ho una posizione, tu no, però mi piace così tanto la roba che fai che sì, facciamo il pezzo. Ed è una cosa che un po’ manca in generale, nel senso che il coraggio di certi artisti di collaborare con chi è più piccolo, o comunque chi è più piccolo discograficamente, perché i motivi sono tanti, non vi devo certo raccontare”.

Il tuo stile è un mix tra rap, soul, r&b, funk… Ti senti ancora figlio del rap o ormai un cantautore urbano?

“Assolutamente figlio del rap, perché quello che ascolto quasi tutti i giorni, quello che vivo, la competizione che vivo musicalmente in generale ce l’ho assolutamente grazie al rap. Lo vedo, io ho tanti amici che fanno altri generi, che non hanno questo fuoco di competere e al di là del voler riuscire a fare quello che fanno, la competizione è una cosa che è da battere, non so se mi spiego. Quindi assolutamente figlio del rap, però poi i figli crescono, hanno una casa, si trasferiscono a Milano, fanno le loro famiglie, eccetera, eccetera”.

In un panorama musicale pieno di cliché, sembri andare controtendenza: non parli di successo, soldi, ego. È una scelta o semplicemente sei così?

“Guarda, credo che riguardi sempre il contesto in cui mi trovo, cioè nel senso, il modo in cui vivo la musica fa sì che io racconti determinate cose, il modo in cui vivo il mio quotidiano fa sì che io racconti determinate cose. Quindi tante volte mi dicono che quando faccio sessioni con qualcuno, “le reference, cerchiamo di fare questa…”, io non è che ci sto troppo dietro a questa cosa, ma non perché sono unico e straordinario, ma semplicemente perché abbiamo un modo tutto nostro di viverci la musica, quindi è inevitabile che poi esca fuori anche sul lato della produzione. E quindi la controtendenza è semplicemente non seguire la tendenza, non è tanto remarci contro”. 

Il disco si chiude con A dirla tutta, ma tu stesso dici: “non ho detto tutto ancora”. Cosa c’è ancora da dire?

“Forse è da raccontare la maturità che non ho ancora al momento raggiunto e anche il processo per raggiungerla e tutto ciò che concerne appunto il vivere quotidiano. Perché poi ti ripeto, la musica nostra si nutre tanto di quotidiano, quindi il quotidiano è una continua evoluzione, non sai mai cosa ti aspetta e c’è tanto da raccontare. A dirla tutta, veramente non ho detto niente, sono al primo disco, fammi fare”.

E adesso che “Grande, non ancora” è fuori, ti senti più grande o sempre “non ancora”?

“Non ancora, assolutamente. Dicevo, il titolo del disco è uscito perché parlando con mia madre mi ha detto vabbè però tu per capirle certe cose sei ancora piccolo e lì diciamo è nato un po’ il giochino della parola“.

A Milano, più difficile scrivere un bel pezzo o trovare un buon caffè?

“Considera che prima delle sessioni si prende un caffè e il caffè modifica le sessioni, quindi quanto ti lascia buono il caffè fai la sessione bene, mettiamola così. In zona nostra a Lambrate si trovano buoni caffè e sono uscite pure belle canzoni, quindi basta saper cercare”.

Hai dedicato la canzone che qualcuno si merita. Tu, oggi, che canzone meriti?

“Una canzone tranquilla, rilassante, perché corriamo tanto e abbiamo bisogno di tranquillità, nonostante poi siamo i primi a volerla eliminare, quindi voler correre, voler essere sempre sul pezzo, però abbiamo bisogno di calma, quindi una canzone tranquilla”

Da cantare su quale palco?

“Ti risponderai in un modo, ma ti risponderò in un modo molto più istituzionale, sul bagno di casa ti direi”.

Ok, invece?

“Su un palco che merito”.