Sulla questione KKR, il fango arriva da tutte le parti

Qualsiasi persona con un minimo di cuore, e a cui interessi almeno qualcosa delle sorti del mondo e di ciò che resta del senso di umanità, dovrebbe indignarsi profondamente per le notizie e le immagini che arrivano giornalmente da Gaza, provando un senso di angoscia, di impotenza, di orrore e – sì – anche di… The post Sulla questione KKR, il fango arriva da tutte le parti appeared first on Soundwall.

May 22, 2025 - 14:05
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Sulla questione KKR, il fango arriva da tutte le parti

Qualsiasi persona con un minimo di cuore, e a cui interessi almeno qualcosa delle sorti del mondo e di ciò che resta del senso di umanità, dovrebbe indignarsi profondamente per le notizie e le immagini che arrivano giornalmente da Gaza, provando un senso di angoscia, di impotenza, di orrore e – sì – anche di rabbia. La questione palestinese poi è un cubo di Rubik di (apparentemente) impossibile soluzione da un secolo o giù di lì, non solo dal 1948; e su di essa possono confrontarsi diverse posizioni, ora come allora.

Giocando a carte scoperte: per chi scrive, l’unica soluzione è quella dei “due Stati”, invisa peraltro a parecchi, e sabotata da molti: sperando che arrivare ad essa possa depotenziare le spinte attuali, che vedono Israele da un lato e Hamas dall’altro giocare il tutto per tutto sulla carta dell’annientare l’anniversario, costi quel che costi, usando la violenza e il terrore come moneta corrente per arrivare alla cancellazione definitiva. Una soluzione, questa dei “due Stati”, che implica per tutti dover rinunciare a qualcosa, oh sì, e intendiamo non solo a livello materiale ma anche e soprattutto a livello di valori ed ideali e “senso di giustizia”.

E per chi lucra economicamente o politicamente sulle guerre, e dei valori e della giustizia in realtà se ne fotte altamente (sono tantissimi, per lo più rispettabilissime società quotate in Borsa o persone ammesse nei salotti buoni della politica e della finanza), implica dover rinunciare a molto, moltissimo fatturato. Per tante, troppe persone la guerra è un grande affare, non lo si sottolineerà mai abbastanza: e queste persone sanno fare leva sull’odio e sul senso di giustizia collettivo per perpetuarla il più possibile, la guerra. Cazzo se gli conviene, cazzo se gli fa gioco.

Questa lunga premessa per dire quanto il tema sia scomodo e quanto, al tempo stesso, sia importante, vitale, esiziale. Difficile restare indifferenti. Non è qualcosa che puoi eludere.

…facile, semmai, trovare ormai “stupido” l’avere una posizione equilibrata. Perché l’impressione, che ci viene venduta da più parti, è che l’equilibrio non porti a nulla, che sia velleitario e non abbia chance di essere attuabile. Che sia insomma un esercizio di stile da parte di chi non ha abbastanza cuore, integrità o coraggio – sì, il modo di ragionare bellico, messianico e machista ha pervaso la narrazione – per schierarsi da una parte, o dall’altra. Del resto, sta accadendo lo stesso anche sulla questione ucraina, dal 2022 in poi, da quando l’Occidente ha deciso che Putin era un imperialista pazzo e scriteriato, non più un capo politico con cui fare affari – anche dopo che aveva invaso unilateralmente la Crimea – e stringere accordi con tanto di sorridenti foto di gruppo: improvvisamente, l’unica soluzione è parlare con le armi. E pazienza se poi la gente comune ci muore. La geopolitica e le sfere d’influenza contano di più delle vite umane. Come del resto si era capito, a proposito di atti d’aggressione unilaterali senza l’avvallo dell’ONU, nel caso dei bombardamenti NATO in Serbia a fine anni ’90.

Ma torniamo al Medio Oriente. E scivoliamo piano piano dalla geopolitica a ciò di cui di solito su queste pagine si parla, la musica, le scene, le scelte e le energie che si coagulano attorno ad essa.

Dopo che Hamas è tornata ad alzare il livello dell’orrore con la carneficina terrorista in larga scala del 7 ottobre 2023 e Israele ha deciso di rispondere con una carneficina simile moltiplicata però per cento, la questione mediorientale è diventata più attuale che mai: una ferita su carne viva inferta ogni giorno sulle nostre coscienze, pure per noi che in questo conflitto non siamo direttamente coinvolti, che stiamo comodamente a casa nostra a fare gli attivisti part time su Instagram o su Facebook.

Nelle ultime settimane, la questione è entrata però con ancora maggior prepotenza nel “nostro” mondo, quello della musica, quello dei festival. Ne abbiamo parlato qui.

In sintesi: Superstruct, un gigante dell’entertainment che nell’ultimo decennio ha fatto letteralmente shopping in giro per il mondo di grandi eventi musicali (Sziget, Sónar, Field Day, DGTL, ma l’elenco è infinito…) l’anno scorso è stato rilevato dal fondo KKR, un fondo immenso operativo in mille campi e, fra questi, alcuni pesantemente connessi alla sfera israeliana politica e militare.

Negli ultimi tempi, le parole e gli atti di chi è schierato apertamente con la causa palestinese (oppure, e non è per forza la stessa cosa, contro l’abominio umanitario che sta accadendo a Gaza), dicevamo, queste parole e questi atti a difesa dalla causa della Palestina sono sempre più violenti, sempre più intransigenti, sempre più pervasivi.

Lo capiamo, sotto molti punti di vista.

Accidenti se lo capiamo.

Di nuovo: quello che sta accadendo sulla Striscia è vomitevole, è inumano, se non è genocidio è comunque un crimine contro l’umanità e la decenza (…chi invece parteggia per Israele dice che è un abominio anche ciò che è successo il 7 ottobre: ecco, ha assolutamente ragione, per carità, ma non è che un abominio uguale e contrario risolve le cose, il rispettivo schifo si somma, mica si elide, e il governo israeliano legittimamente eletto da una democrazia si sta comportando da schifo tanto quanto la canaglia cinica, violenta e teocratica di Hamas). Quindi comprendiamo perfettamente che si sia persa la pazienza, e che l’unico modo per sentirsi utili e “attivi” sulla questione sia: diventare intransigenti.

 La reazione d’istinto e di pancia è questa.

Però va lanciata una domanda, che è una provocazione ma anche un’amara constatazione: a fare così, stiamo aiutando la soluzione del problema o stiamo invece portando anche noi stessi e ciò che ci circonda verso la radicalizzazione, il messianesimo, il disprezzo del senso di empatia e ragionevolezza verso la vita e la pacifica quotidianità? Che è esattamente quello che vogliono i Netanyahu e Ben Gvir da un lato, e Hamas dall’altro.

Andando dritti al punto, e tornando a piedi uniti al “nostro” campo: abbiamo criticato appunto parecchio come il Sónar abbia gestito la questione, lo abbiamo fatto davvero senza mezzi termini, e vale lo stesso per gli altri comunicati ufficiali all’acqua di rose (chi più e chi meno) delle realtà sotto il cappello di Superstruct usciti in questi giorni, prima e dopo. Tanti, sincronizzati in modo sospetto. E fatti così male che in più di un caso – vedi Sónar e Field Day – hanno figliato una precisazione che voleva migliorare la situazione, finendo invece di peggiorarla. Se ci è chiesto di scegliere, la nostra simpatia va verso chi ha il coraggio di sollevare la questione e magari decide di boicottare gli eventi in questione, non verso chi fa finta di niente e aspetta passi la buriana, per tornare in santa pace al business as usual. Questa la posizione. Lo dichiariamo senza paura.

Il problema è che l’avvento di Superstruct, quindi di un mega conglomerato finanziario, non arriva da un complotto degli alieni, ma nasce dall’impazzimento dei costi del mercato degli eventi musicali: ormai solo se hai le spalle copertissime, come risorse economiche, puoi giocare al tavolo dei grandi festival. There is no alternative, come piace(va) dire agli alfieri del liberismo capitalista

Ma occhio: perché la “polarizzazione da social”, l’attivismo da tastiera e la pratica velenosa del virtue signalling (una delle vere cellule tumorali della comunicazione ai tempi del web) sta prendendo piede, sta prendendo troppo maledettamente piede. Ok sostenere una posizione; ma se sostenere la propria posizione implica automaticamente il disprezzo, l’odio e la dannazione verso chi ha una posizione anche solo leggermente diversa e/o più sfumata rispetto alla nostra, allora noi siamo parte del problema, non la soluzione. Sì, noi: che abbiamo la fortuna – sì, è una cazzo di fortuna – di non vivere sotto le bombe, di non rischiare attentati ogni giorno quando andiamo a lavorare o a divertirci, di non essere soggetti a ricatti e dittature confessionali… Tutte situazioni che ti costringono a diventare molto più “animale” prono alla violenza per sopravvivere che persona civile.

E parlando ancora meno di massimi sistemi ma stando sul concreto, possibile che non ci sia più spazio per dubbi, per considerare tutte le parti in causa, per riflettere sulle conseguenze di una scelta, di un invettiva, di un boicottaggio? Fare tutto questo non implica non schierarsi, ma è un modo fattivo, intelligente e civile per migliorare il dialogo su tutto ciò che sta succedendo, gettando i semi della ragionevolezza e del confronto – che sono gli unici che possono portare ad una ricomposizione duratura e ad una fine dei massacri.

In mezzo a tanti, tantissimi post indignati – e che arrivano magari da persone che fino a cinque minuti prima mai avevano sentito nominare Sónar, Field Day, Boiler Room, Superstruct – ci ha molto colpito uno statement postato via Instagram come story da Matisa, dj/producer italiana molto brava assai che era prevista in line up al Field Day e che, rinunciando a partecipare al festival medesimo, si è inferta comunque un danno, visto che lei non è così famosa da poter dire “Scartato un festival, sticazzi, si suona ad un altro” e per lei non suonare nel festival britannico è un’occasione reale di mancato aumento del profilo e del suo valore sul mercato, oh sì che lo è.

Contrariamente ad alcuni gruppi che hanno probabilmente solo da guadagnarci presso il proprio target di audience e di mercato di riferimento sbandierando il proprio ritirarsi dal Sónar, Matisa ha fatto una scelta che la può più danneggiare che aiutare, nei perimetri dell’ecosistema di mercato a cui appartiene. Ha scritto questo, Matisa (e lo ha fatto in una story apposta, perché convinta che se l’avesse pubblicato come post alla fine avrebbe solo ottenuto di far aumentare il traffico sulla sua pagina creando una infinita scia di commenti sterili da una parte o dall’altra, dove il punto non è ragionare ma far vedere che si ha ragione):

Hey everyone,

I’ve spent the past few days sitting with a decision I never imagined I’d have to make. And after a lot of reflection, I’ve decided to step away from playing Field Day this year.

I want to start by saying how excited I was for this show. It meant a lot to me. The chance to share a moment with you on that stage was something I had been genuinely looking forward to. But sometimes, the moments that matter most also ask the most of us.

There has been a lot of concern raised about Field Day’s connection to KKR, a major investment firm with financial ties to industries like arms manufacturing, surveillance, and the sale of occupied land. I’ve read through the statements made, hoping for clarity, but the responses left me feeling more unsettled than reassured.

And yet, I also know that none of this is simple.

The more I thought about it, the more I realized that in a world as interconnected as ours, there’s almost no way to make a decision that’s entirely clean. Boycotting one event often raises the question of why not others. If I don’t play here, do I need to stop playing everywhere tied to similar systems? And if I do, who am I really impacting?

Do we hurt the fans who show up with open hearts and open minds? Do we hurt promoters who work hard to create spaces for music to thrive? Or do we actually shift something bigger by saying “no” in moments like this?

There’s no easy answer. And I say that not to avoid responsibility..but to be transparent about the emotional weight that comes with caring deeply.

What ultimately brought me clarity was this: in this specific moment, with this particular festival, continuing to play would be seen by many as taking a side. A side I’m not comfortable being associated with. I do not want to be perceived as someone who, by their presence, appears indifferent to the suffering of Palestinians..or supportive of ongoing violence and occupation. That’s not where my heart is. That’s not where I stand.

I’m not making this choice because it’s easy or popular. I’m making it because silence, in moments like this, can speak louder than any song.

This doesn’t mean I have all the answers. It doesn’t mean I’ve figured out the perfect ethical path through every part of this world. I’m trying..like many of us, to navigate complexity with care, and to align my actions with my values, even when it hurts.

To the fans who were planning to be there: I love you. I hope you understand. And to the many people working behind the scenes, your work matters. I just need to stand still for a moment, and listen to what feels right.

Thank you for holding space for thoughtfulness in a time that often moves too fast. I’ll see you somewhere else, soon!, with the same music, the same heart, and even more clarity.

With love,

Matisa

Letto? Letto per bene?

Parole per niente massimaliste, e piene di umanità. Parole che non fanno calare una propria scelta come una mannaia moralista e un self branding, ma che raccontano il ragionamento attorno a cui si è arrivati alla scelta per cui si è optato, evidenziando con attenzione come ogni scelta non sia perfetta, non sia “pura”, e – chiosa nostra questa, non di Matisa – chi pretende invece lo sia, perfetta e “pura”, sta solo avvelenando i pozzi e tifando odio. Perché davvero: tutta questa rabbia nei confronti del Sónar o del Field Day chi colpisce? Colpisce di più KKR, o colpisce le persone che per questi festival ci lavorano, in produzione o anche solo come semplici facchini e baristi e quant’altro? Il nostro mondo sarà migliore quando Sónar e Field Day (e Boiler Room, e Sziget, e Snowboming, e…) falliranno? È questo il nostro obiettivo?

Una lezione importante l’ha data – e qua saliamo anche di livello rispetto a Matisa, così nessuno si offende – Brian Eno, che ha dato anche una immensa dimostrazione di civiltà, intelligenza ed impegno scrivendo quanto sotto:

Brian Eno propone una cosa molto concreta, reale, importante, fattuale.

Indirettamente, indica anche la strada che né il Sónar né altri festival sotto il cappello di Superstruct hanno voluto percorrere, e questa sì è una colpa. Invece di una serie di comunicati all’acqua di rose, pavidi ed omertosi sulla faccenda, i festival di Superstruct che veramente tengono alla “pace nel mondo”, alla “tolleranza inclusiva” e all’”umanità” avrebbero potuto semplicemente dire che destinavano parte dei loro guadagni alle tante organizzazione che si occupano di dare aiuto alla popolazione di Gaza.

La soluzione non è far chiudere o fallire i festival sotto il cappello di Superstruct, e con questo “Risolto tutto!”. Se questi festival sono così “autonomi” nella loro linea come sostengono, allora dovrebbero avere la forza e la possibilità di fare gesti concreti in aiuti alla popolazione di Gaza; e se questo non gli viene concesso, allora dovrebbero avere la forza di dire “Ok, ci siamo sbagliati, non siamo così autonomi come credevamo, ci dimettiamo, proviamo a costruire qualcosa da qualche altra parte”.

Sarebbero in grado di farlo?

Il problema è che l’avvento di Superstruct, quindi di un mega conglomerato finanziario, non arriva da un complotto degli alieni, ma nasce dall’impazzimento dei costi del mercato degli eventi musicali: ormai solo se hai le spalle copertissime, come risorse economiche, puoi giocare al tavolo dei grandi festival. There is no alternative, come piace(va) dire agli alfieri del liberismo capitalista. Non è più un labour of love di appassionati di musica che riescono a vivere (bene) della propria passione; no, è diventato invece un gioco al massacro dove solo i più ricchi e/o cinici riescono a giocare. E se si è arrivati a questo, è anche colpa degli artisti: che per distrazione o per avidità, hanno permesso che questo accadesse anno dopo anno, sempre di più, senza capire quando era il momento di dire invece “Basta” e di allontanare i meccanismi e i personaggi da alta finanza ed ampio portafoglio dal “tempio” dell’arte e della musica.

Su questo è giusto puntare il dito.

Con forza.

…ma occhio: non è facendo fallire gli eventi del portafoglio di Superstruct che danneggi seriamente KKR, e gli fai cambiare politiche d’investimento. Zero. Chi danneggi di più, tifando fallimento e rovina immediati, sull’onda dell’indignazione del momento, è chi con gli eventi di Supestruct ci sopravvive, non chi ci lucra. Va sempre tenuto in conto.

Detto ciò, come fatto notare da Matisa nelle sue parole che abbiamo riportato, comunque è doveroso lanciare dei segnali, accidenti se è doveroso. Ma fate come lei: fatelo bene, fatelo con umanità, fatelo con empatia, fatelo ragionando e spiegando cosa sta dietro il vostro ragionamento. Le tifa tribali da stadio che incitano alla morte atroce – simbolica o reale – del nemico sono il veleno, non la soluzione.

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