Intervista a Giuseppina Torre, “Un PIANO per RINASCERE. La mia storia dal vivo”
In libreria e negli store digitali "Un PIANO per RINASCERE. La mia storia dal vivo", il primo libro di GIUSEPPINA TORRE. La nostra intervista L'articolo Intervista a Giuseppina Torre, “Un PIANO per RINASCERE. La mia storia dal vivo” proviene da imusicfun.

È in libreria e negli store digitali “Un PIANO per RINASCERE. La mia storia dal vivo” (Solferino, pp. 192), il primo libro di GIUSEPPINA TORRE, scritto con la giornalista BARBARA VISENTIN. Qui il link per l’acquisto di una copia fisica del volume.
Intervista a Giuseppina Torre, il libro “Un PIANO per RINASCERE. La mia storia dal vivo”
1. “Un piano per rinascere” è un titolo potente. Cosa rappresenta per te oggi quel “piano”? È ancora uno strumento o è diventato qualcos’altro ?
Un piano per rinascere” è un titolo che nasce da un’intuizione profonda: quella del pianoforte non solo come strumento musicale, ma come compagno di viaggio, voce interiore, rifugio e rinascita. Oggi, quel “piano” rappresenta molto di più di un semplice strumento: è diventato un’estensione della mia anima, il modo più autentico che ho per esprimere ciò che le parole non riescono a dire.In quel titolo c’è racchiuso un percorso di vita, fatto di silenzi, cadute e rinascite. Ogni tasto toccato è una scelta, ogni nota è una ferita che si è fatta luce, ogni composizione è una forma di resistenza e di speranza. Il piano non è più solo qualcosa che suono: è qualcosa che mi trasforma, ogni giorno. È diventato spazio di memoria, di ascolto e di visione, un luogo intimo dove la fragilità e la forza si incontrano.Oggi, quando mi siedo al piano, non cerco solo la bellezza del suono, ma una verità da condividere, un’emozione da restituire al mondo. Quel “piano” è la mia casa, ma anche il mio modo di esserci per gli altri. Per questo sì, è ancora uno strumento — ma soprattutto è diventato un simbolo di rinascita, di identità e di libertà.
2. Hai deciso di raccontare la tua storia attraverso un libro. Quando hai sentito che era arrivato il momento giusto per farlo?
Ho sentito che era arrivato il momento giusto per raccontare la mia storia quando ho capito che il dolore che avevo vissuto poteva trasformarsi in forza, non solo per me, ma anche per gli altri. C’è stato un punto preciso in cui il silenzio non bastava più, in cui le note — pur così profonde — avevano bisogno di essere accompagnate anche dalle parole, per dare un volto più chiaro a ciò che avevo attraversato.Non è stata una decisione semplice né improvvisa: è maturata nel tempo, come una consapevolezza che cresce piano, ma che alla fine diventa urgente. Volevo restituire un senso a ciò che mi era accaduto, e soprattutto volevo che la mia esperienza potesse parlare a chi si sente solo, a chi ha conosciuto l’ingiustizia, la paura, il silenzio imposto. Scrivere è stato come aprire una porta: su me stessa, ma anche sugli altri.
3. Il libro si apre con un concerto che vivi come l’ultimo. Quanto è stato difficile salire su quel palco? E quanto è stato liberatorio, dopo?
Salire su quel palco, in quel momento, è stato uno degli atti più difficili e coraggiosi della mia vita. Lo vivevo come un addio, come se stessi suonando le ultime note prima di scomparire. Dentro di me c’era un turbine di emozioni: dolore, paura, senso di ingiustizia, ma anche un estremo bisogno di restare fedele a me stessa, almeno un’ultima volta. Ogni passo verso il pianoforte era carico di silenzio, e ogni nota che suonavo era un grido trattenuto, un frammento della mia verità.In quel momento, il palco non era solo uno spazio scenico: era una soglia tra il crollo e la possibilità di resistere. Suonare è diventato un atto di sopravvivenza, l’unico modo che avevo per dire: “Io ci sono ancora”. E proprio in quella condizione estrema, in quell’apparente fine, qualcosa dentro di me ha cominciato a cambiare.Dopo, è stato liberatorio. Non perché il dolore fosse scomparso, ma perché avevo scelto di non spegnermi. Avevo affrontato la mia ombra, l’avevo guardata in faccia e le avevo risposto con la musica. È lì che ho capito che forse non era la fine, ma un inizio diverso. Un inizio più vero, più consapevole, più mio. E da quel giorno, ogni palco non è più solo un luogo di esibizione, ma uno spazio di rinascita, di memoria e di verità.
4. Hai detto che per molto tempo la musica è stata anche un dolore, perché associata a chi cercava di controllarti. Come hai riconquistato il tuo spazio artistico?
Riconquistare il mio spazio artistico è stato un cammino lento, faticoso, ma profondamente necessario. Quando la musica viene usata da altri come strumento di potere, come mezzo per manipolarti o silenziarti, finisci per smarrire non solo la tua arte, ma anche la tua identità più profonda. Per me, che ho sempre vissuto il pianoforte come un’estensione dell’anima, questo legame spezzato è stato una ferita enorme. Per molto tempo non riuscivo più a suonare senza sentire addosso il peso di quel controllo, come se ogni nota fosse contaminata da un’ombra esterna. Ma a un certo punto ho capito che lasciare che mi rubassero anche la musica significava lasciar vincere chi voleva annientarmi. E allora, un passo alla volta, ho iniziato a riprendermi quel territorio interiore: ho ricominciato a suonare solo per me, in silenzio, nei momenti più intimi, senza cercare approvazione.La svolta è arrivata quando ho cominciato a scrivere nuova musica, partendo dal mio dolore, dalle mie ferite, dalla mia verità. In quel processo creativo c’è stata la mia liberazione: ogni brano era un tassello di me che tornava al suo posto, ogni melodia un atto di resistenza e rinascita. Non suonavo più per dimostrare qualcosa, ma per riconnettermi a ciò che ero davvero, prima di tutto.Oggi il mio spazio artistico è libero, autentico, mio. È un luogo inviolabile, in cui posso finalmente esistere senza catene. E questo non significa aver dimenticato, ma aver trasformato quel passato in forza creativa, in consapevolezza, in voce.
5. Il tuo percorso mostra come la musica possa essere una forma di resistenza, anche nel silenzio. Hai mai avuto paura che quel silenzio potesse diventare definitivo?
Sì, ho avuto paura che quel silenzio potesse diventare definitivo. Una paura profonda, viscerale, che mi ha accompagnata nei momenti più bui, quando la musica sembrava essersi spenta dentro di me e non riuscivo più a riconoscere la mia voce. Era un silenzio diverso da quello scelto per riflettere o creare: era un silenzio imposto, svuotato, pieno di dolore e di assenza. E lì, in quel vuoto, ho davvero temuto di non riuscire più a tornare a me stessa, di non riuscire più a suonare con verità.La musica, per me, è sempre stata respiro, radice, casa. Sentire che mi stava scivolando via significava perdere anche una parte essenziale di chi ero. Ma proprio in quel silenzio, così lacerante, ho cominciato a sentire un’altra forma di suono: quello dell’ascolto profondo, dell’attesa, della trasformazione interiore. Il silenzio ha iniziato a parlarmi, non più come minaccia, ma come spazio in cui qualcosa poteva rinascere.È stato un processo lento e doloroso, ma anche necessario. Non ho combattuto contro il silenzio: ho imparato a starci dentro, a rispettarlo, fino a quando non è diventato fertile. E quando finalmente ho ricominciato a suonare, ho capito che la mia musica era cambiata: era più essenziale, più vera, più libera. Non avevo solo ritrovato il suono: avevo ritrovato me stessa. Ed è lì che ho compreso che, anche nel silenzio, la musica non mi aveva mai davvero abbandonata.
6. Il libro è una testimonianza coraggiosa di violenza psicologica e fisica. Cosa ti ha aiutato davvero a trovare la forza per denunciare e uscire da quella “gabbia dorata”?
Quello che mi ha davvero aiutato a trovare la forza per denunciare e uscire da quella “gabbia dorata” è stata la consapevolezza, lenta ma inarrestabile, che stavo perdendo me stessa. Per tanto tempo ho vissuto intrappolata in un’apparenza perfetta, in un mondo fatto di successi, riconoscimenti e sorrisi obbligati, mentre dentro di me si spegneva la luce. Era una gabbia fatta non solo di violenza fisica e psicologica, ma anche di manipolazione, di colpa e di isolamento.La forza non è arrivata tutta insieme. È nata in piccoli gesti di ribellione silenziosa, in momenti di lucidità, in istanti in cui ho guardato allo specchio la donna che stavo diventando e non l’ho più riconosciuta. Ma ciò che ha fatto davvero la differenza è stato il desiderio profondo di non voler più vivere nella paura, e il bisogno vitale di ritrovare la mia voce. Ho capito che il talento, la sensibilità, l’amore per la musica non potevano più essere usati contro di me. Dovevo salvarli. Dovevo salvarmi.Mi ha aiutato anche l’incontro con persone che mi hanno creduta, ascoltata senza giudizio, restituendomi un’immagine diversa di me: non più quella fragile o spezzata, ma una donna capace di rinascere. E poi la musica: sempre lei, che mi aspettava, anche nel silenzio. È stata la mia ancora e la mia spinta, perché dentro ogni nota c’era un frammento della mia verità che chiedeva di uscire allo scoperto.Denunciare è stato un atto di rottura, ma soprattutto un atto d’amore per me stessa, per la mia libertà, per la mia dignità. Uscire da quella gabbia è stato doloroso, ma necessario. Perché nessuna “doratura” può giustificare la prigione, e nessun talento può brillare davvero se è soffocato dalla paura.
7. La vergogna, il senso di colpa, la paura: quanto pesano questi sentimenti sulle donne che vivono storie simili alla tua?
Pesano tantissimo. Sono come catene invisibili, ma profondamente reali, che bloccano il respiro, i pensieri, le scelte. La vergogna, il senso di colpa e la paura non sono semplici emozioni: diventano strumenti di controllo potentissimi, interiorizzati al punto da farti dubitare di te stessa, da farti credere che forse sei tu il problema, che forse esageri, che forse meriti quello che stai vivendo. Per molte donne, come è stato anche per me, la vergogna è paralizzante: vergogna di parlare, di chiedere aiuto, di ammettere che dietro un’apparente normalità si nasconde una realtà fatta di violenza e umiliazioni. Si ha paura di non essere credute, di essere giudicate, di perdere tutto: il lavoro, la stabilità, l’immagine sociale. E poi c’è il senso di colpa, che è forse la trappola più subdola: ci si colpevolizza per non essere riuscite a reagire prima, per aver “permesso” certe situazioni, per aver creduto a chi poi si è rivelato un carnefice.Questi sentimenti non nascono dal nulla: sono alimentati da una cultura che troppo spesso minimizza, giustifica o tace. Ed è per questo che parlarne, raccontare, testimoniare è fondamentale. Perché ogni voce che si alza rompe quel silenzio pesante e lacerante. Io ho scelto di trasformare la mia vergogna in parola, il mio senso di colpa in consapevolezza, la mia paura in coraggio. E oggi so che ogni donna che trova la forza di uscire da quella spirale non è fragile, ma incredibilmente forte. Merita ascolto, rispetto e soprattutto libertà.
8. Hai avuto accanto delle figure che hanno fatto la differenza, come le donne che ti hanno protetta durante quel concerto. Quanto conta una rete di sorellanza?
Conta tutto. In momenti così delicati, in cui ti senti smarrita, confusa, svuotata, avere accanto donne che ti credono, ti vedono davvero e ti tendono la mano senza chiedere nulla in cambio, può fare la differenza tra crollare e rialzarsi. La rete di sorellanza non è solo un sostegno emotivo: è una forza concreta, tangibile, che ti ricorda che non sei sola, che il tuo dolore non è invisibile, che la tua voce merita di essere ascoltata. Quelle donne che mi hanno protetta durante quel concerto sono diventate un simbolo di cura e resistenza femminile. Non servono gesti eclatanti: a volte basta una presenza silenziosa, uno sguardo complice, una mano appoggiata sulla spalla nel momento giusto per farti sentire al sicuro. In un mondo che spesso ci vuole divise, in competizione o giudicanti, ritrovare solidarietà tra donne è rivoluzionario. La sorellanza è questo: riconoscersi nei frammenti dell’altra, custodirli, rafforzarli. È un’energia che non si impone ma sostiene, che non giudica ma accompagna. E nei momenti più bui della mia vita, è stato proprio questo legame invisibile ma fortissimo a tenermi in piedi, a restituirmi fiducia, a farmi sentire di nuovo viva. Per questo oggi credo profondamente nel potere della condivisione tra donne, nel valore dell’ascolto reciproco, nell’importanza di fare rete, di esserci le une per le altre. Perché quando ci sosteniamo, siamo capaci di cambiare non solo le nostre vite, ma anche il mondo intorno a noi.
9. Parli con grande dolcezza di tuo padre, che ha sempre creduto in te. Quanto ti ha aiutato l’amore incondizionato della tua famiglia in questi anni?
L’amore incondizionato della mia famiglia, e in particolare quello di mio padre, è stato un faro che ha continuato a brillare anche quando tutto intorno a me era buio. È difficile spiegare a parole quanto conti, in un percorso così complesso e doloroso, sapere che esiste almeno un luogo — umano, affettivo — dove non devi giustificarti, dove sei amata semplicemente perché esisti. Mio padre ha sempre creduto in me, anche quando io non riuscivo più a credere in me stessa. Con la sua presenza silenziosa ma costante, mi ha insegnato il valore della dignità, della coerenza, della bontà autentica. Il suo sguardo su di me non è mai cambiato, neppure nei momenti in cui ero più fragile o spezzata: e questo mi ha dato forza, mi ha dato radici. Sapevo che potevo crollare, ma che non sarei mai caduta nel vuoto. La famiglia, quando ti ama davvero, non ti chiede di essere forte, ma ti accoglie anche nella tua debolezza. E così è stato per me. Nei giorni in cui avevo paura, nei momenti in cui sentivo di non avere più voce, loro mi hanno restituito silenziosamente valore, mi hanno ricordato chi ero prima che tutto accadesse, e chi potevo tornare ad essere. Non è stato solo un sostegno pratico o emotivo: è stato un nutrimento dell’anima, una forma di amore che cura senza pretendere, che sta accanto senza invadere. Ed è anche grazie a questo amore che oggi posso raccontare la mia storia a testa alta, con la consapevolezza di essere sopravvissuta — ma anche di essere rinata, dentro un legame che non ha mai smesso di proteggermi.
10. Il libro racconta anche la tua infanzia in Sicilia. In che modo quelle radici ti hanno sostenuta nei momenti più bui?
Le mie radici siciliane sono state un rifugio silenzioso e potente, una presenza invisibile ma costante che, nei momenti più bui, mi ha ricordato chi ero davvero. L’infanzia in Sicilia è fatta di luce intensa, di profumi che restano nella memoria, di suoni che ti entrano nel cuore — ma soprattutto è fatta di legami profondi, di valori semplici ma fortissimi, di una terra che ti insegna la resilienza attraverso il suo stesso paesaggio, aspro e generoso allo stesso tempo. Quando tutto sembrava crollare intorno a me, tornare con il pensiero a quella ragazza che suonava il pianoforte davanti al mare, che si perdeva nei silenzi della natura, che cresceva circondata da affetto autentico e radicato, è stato un modo per non smarrirmi del tutto. La Sicilia, con le sue contraddizioni e la sua bellezza, mi ha insegnato ad avere pazienza, a resistere alle tempeste, a credere che anche la terra più arida può fiorire. Quelle radici mi hanno dato un senso di appartenenza che nessuna violenza è riuscita a cancellare. Mi hanno ricordato che la mia identità non poteva essere definita dalla paura o dall’oppressione, ma da tutto ciò che veniva prima: l’amore, la musica, la verità profonda che abita il cuore di chi è cresciuto ascoltando il vento e il mare.Oggi porto dentro di me la mia terra come un filo che mi tiene legata alla parte più autentica di me. È un richiamo costante alla forza, alla bellezza, alla dignità. È la mia origine, ma anche il mio punto di ritorno: ogni volta che mi perdo, è lì che ritrovo la strada.
11. Qual è stata la differenza più grande tra raccontarsi con la musica e farlo con le parole scritte?
La differenza più grande tra raccontarmi con la musica e farlo con le parole scritte è stata la nudità. Con la musica, ho sempre espresso emozioni profonde, anche quelle più dolorose, ma in modo evocativo, quasi protetto, affidando alle note quello che le parole non riuscivano — o non osavano — dire. Ogni brano era una confessione, sì, ma filtrata dal suono, dalla sensibilità dell’ascoltatore, dalla libertà dell’interpretazione. Scrivere, invece, ha significato spogliarmi completamente, affrontare la verità senza veli, dare nomi precisi alle ferite, ai sentimenti, ai volti. È stato più difficile, più crudo, ma anche profondamente liberatorio. Perché mentre la musica ti fa volare, la scrittura ti costringe a camminare dentro la terra della tua storia, passo dopo passo, senza scorciatoie. Con la musica ho parlato all’anima degli altri. Con le parole ho parlato dalla mia. Ho dovuto guardarmi allo specchio e decidere di non fuggire. Ma in quel processo ho scoperto un’altra forma di forza: quella della chiarezza, della memoria restituita, della voce ritrovata fino in fondo. Oggi sento che musica e scrittura non si escludono, anzi: si completano. Dove finisce la parola, comincia la nota. Dove tace la musica, parla la verità nuda del racconto. E insieme, mi permettono di dire chi sono — non solo come artista, ma come donna.
12. Com’è stato il lavoro con la giornalista Barbara Visentin? Cosa ha significato avere una “testimone” durante la scrittura?
Lavorare con Barbara Visentin è stato un incontro prezioso, umano prima ancora che professionale. Sin dal primo momento, Barbara si è avvicinata alla mia storia con delicatezza, rispetto e ascolto profondo, senza mai invadere, senza mai forzare. Ha saputo stare accanto a me con sensibilità e intelligenza, lasciandomi lo spazio per aprirmi nei miei tempi, nei miei silenzi, nelle mie verità. Avere una “testimone” durante la scrittura ha significato molto più che collaborare con una giornalista: è stato come avere uno specchio gentile, capace di riflettere la mia voce senza distorcerla, aiutandomi a dare forma e ordine a emozioni spesso difficili da raccontare. Barbara non ha mai cercato di guidare il racconto, ma ha camminato con me, passo dopo passo, custodendo con rispetto ogni parola, ogni ricordo, ogni fragilità. La sua presenza mi ha dato il coraggio di scavare più a fondo, di dire anche ciò che per tanto tempo era rimasto nascosto, imprigionato. Mi ha aiutata a sentirmi meno sola, a capire che condividere il dolore non significa indebolirsi, ma creare un ponte verso l’altro. Scrivere questo libro insieme a lei ha trasformato un percorso doloroso in un gesto di testimonianza collettiva, in cui la mia voce è diventata più chiara, più forte, più libera. E oggi, guardando quel lavoro finito, so che non è solo il frutto della mia storia, ma anche della fiducia, dell’ascolto e della sorellanza silenziosa che ha reso possibile ogni parola.
13. Dopo la musica e il libro, qual è oggi la tua idea di felicità?
Oggi, la mia idea di felicità è semplicità e verità , è sentirmi libera, autentica, intera. È potermi guardare allo specchio senza abbassare lo sguardo, è poter suonare o scrivere senza paura, senza dover dimostrare niente a nessuno. È fatta di presenze vere, di affetti sinceri, di silenzi che non fanno più male. Felicità è vivere in armonia con ciò che sono diventata, dopo la tempesta, dopo il dolore, dopo la rinascita. È scegliere ogni giorno di stare dalla mia parte, di proteggere ciò che ho ricostruito con fatica e amore. È sapere che posso sbagliare, cadere, ma che non permetterò più a nessuno di togliermi la voce. Felicità, per me, è anche dare un senso a ciò che ho vissuto, trasformarlo in musica, in parole, in condivisione. È sapere che la mia storia può essere luce per qualcun altro, forza per chi ancora sta lottando. È abitare pienamente il presente, senza nostalgie né finzioni. E, soprattutto, è poter essere me stessa, in pace, senza catene.
14. In che modo hai ritrovato la creatività dopo anni di paura e oppressione?
Ho ritrovato la creatività quando ho smesso di avere paura del silenzio e ho iniziato ad ascoltarlo davvero. Dopo anni in cui ogni gesto creativo era controllato, giudicato, condizionato, la mia espressione artistica si era spenta, schiacciata da una presenza che voleva decidere cosa dovevo essere, cosa dovevo dire, perfino cosa dovevo sentire. In quella prigione, la creatività non poteva respirare. Ma dentro di me una scintilla non si è mai spenta del tutto. Era nascosta, silenziosa, ma c’era. Ritrovare la creatività ha significato ritrovare me stessa, liberarmi da quello sguardo che mi voleva diversa, più docile, più piccola. Ho iniziato lentamente: poche note, scritte solo per me, senza aspettative. Poi quelle note sono diventate frasi, melodie, emozioni nuove. Era come ricominciare a parlare dopo un lungo silenzio forzato, con una voce diversa, più consapevole. La creatività è tornata quando ho smesso di chiedermi se ciò che facevo fosse “giusto” o “all’altezza”, e ho cominciato a fare spazio all’intuito, al bisogno di esprimere, al desiderio di raccontare ciò che avevo dentro — anche se faceva male. È stato un processo intimo, vulnerabile, ma anche potentissimo. Perché creare, dopo l’oppressione, è un atto di libertà assoluta. Oggi la mia creatività non è più legata alla perfezione o al giudizio. È un gesto vitale, autentico, che nasce dall’ascolto profondo e dalla verità. Ed è proprio in quella verità che ho ritrovato non solo la mia arte, ma anche il senso più profondo del mio essere artista e donna.
15. “Non ho più nulla da dare” scrivevi un tempo. Oggi invece cosa senti di voler donare al pubblico e a te stessa?
“Non ho più nulla da dare” è stata una frase che ho scritto in un momento di totale smarrimento, quando sentivo di aver perso tutto: la mia voce, la mia forza, la mia identità. Era il risultato di anni di paura, di silenzi forzati, di un dolore che sembrava aver svuotato ogni cosa dentro di me. Ma oggi, dopo quel buio, so che non era vero che non avevo più nulla: avevo solo bisogno di ritrovare la mia verità, con pazienza e con amore. Oggi sento che ho molto da dare, perché ciò che dono non nasce più dalla necessità di piacere o di compiacere, ma dalla libertà ritrovata. Al pubblico voglio offrire autenticità, emozione sincera, una musica che nasce da un vissuto vero, da ferite trasformate in forza. Voglio condividere la bellezza di una rinascita possibile, la speranza che anche dopo il dolore più profondo si può ricominciare a creare, a sognare, a vivere. E a me stessa, oggi, voglio donare gentilezza e tempo. Tempo per crescere, per sbagliare, per ascoltarmi senza giudizio. Voglio regalarmi il permesso di essere fragile, ma anche il coraggio di essere luminosa. Voglio riconoscermi ogni giorno, senza dimenticare da dove vengo, ma abbracciando con fiducia la donna che sono diventata. Quello che dono oggi — agli altri e a me stessa — è una verità che non ha più paura. È una musica che non chiede il permesso di esistere, ma che esiste e basta, con tutta la sua luce e tutta la sua profondità.
16. Questo libro può diventare un faro per molte donne. Cosa diresti a chi sta vivendo una storia di abuso ma non riesce a parlarne?
Direi: non sei sola. Anche se ora ti sembra di esserlo, anche se il silenzio ti soffoca e la paura ti paralizza, c’è una via d’uscita, e dentro di te esiste una forza che forse ancora non sai di avere. L’abuso, soprattutto quando è psicologico, ti isola, ti fa dubitare di te stessa, ti fa credere che nessuno possa capire. Ma non è così. Ci sono voci, come la mia, che oggi parlano proprio per questo: per ricordarti che si può ricominciare. Non è facile. Ci vuole tempo, coraggio, e spesso anche dolore. Ma il primo passo non è urlare al mondo quello che stai vivendo: il primo passo è crederti, riconoscere che ciò che senti non è immaginazione, che quella ferita è reale, che meriti amore, rispetto, libertà. Parlane con qualcuno di cui ti fidi, anche solo con poche parole. Anche solo per dire: “Non sto bene”. A volte, basta quel piccolo spiraglio per far entrare la luce. Non c’è vergogna nell’aver subito violenza. La vergogna non è tua: è di chi ha usato la forza, il controllo, il silenzio per annientarti. Tu hai diritto a una vita piena, a essere ascoltata, a ritrovare la tua voce. Anche se oggi ti sembra impossibile, sappi che la rinascita è reale, e che dentro ogni ferita può nascere qualcosa di nuovo, di vero, di potente. Questo libro non è solo la mia storia: è un faro acceso anche per te, un gesto d’amore e di sorellanza. Perché tu non sei il tuo dolore. Tu sei molto di più. E quando sarai pronta, quella forza che ora senti lontana sarà la tua più grande rivoluzione.
17. Il tuo racconto è anche una denuncia sociale. Secondo te, cosa dovrebbe cambiare davvero nella narrazione e nella gestione della violenza domestica in Italia?
Credo che in Italia ci sia ancora troppa distanza tra la realtà vissuta dalle donne e il modo in cui la violenza domestica viene raccontata, ascoltata e affrontata dalle istituzioni e dalla società. Si parla di violenza quasi sempre quando è già troppo tardi, quando c’è una vittima da piangere. Ma la violenza non inizia con un colpo, inizia molto prima: con la manipolazione, il controllo, l’umiliazione quotidiana. E proprio lì, dove tutto è ancora “invisibile”, troppo spesso viene ignorata, minimizzata o scambiata per conflitto di coppia. Quello che dovrebbe cambiare radicalmente è la narrazione culturale: serve un linguaggio nuovo, che chiami le cose con il loro nome, senza attenuarle, senza colpevolizzare le vittime, senza giustificare chi abusa. Bisogna raccontare la violenza per quella che è: una forma di potere, di dominio, di annientamento dell’altro, non un raptus o una “relazione malata”. Ma oltre alla narrazione, serve un cambiamento concreto nella gestione istituzionale. Le donne che trovano il coraggio di denunciare devono sentirsi credute, protette, accompagnate da una rete solida. Troppo spesso, invece, chi denuncia viene lasciata sola, sottoposta a iter giudiziari lunghi e logoranti, costretta a rivivere la violenza tra tribunali, carte e interrogatori. Questo non è giustizia: è un’altra forma di violenza. Servono più centri antiviolenza, più formazione per le forze dell’ordine, per i magistrati, per gli operatori sociali. Serve educazione affettiva nelle scuole, perché la cultura del rispetto e del consenso si costruisce fin da piccoli. E serve, soprattutto, una rivoluzione culturale profonda, che smetta di chiedere alle donne “perché sono rimaste” e cominci a chiedere agli uomini perché hanno creduto di poter dominare. Il mio racconto è anche una denuncia perché so che non basta salvarsi da sole: bisogna rompere il silenzio per cambiare il sistema. E io non voglio più tacere.
18. Dopo i concerti in Australia e il tour italiano, che progetti hai in mente? Pensi a nuova musica?
Sì, penso a nuova musica — e non potrebbe essere altrimenti. Dopo il tour italiano e i concerti in Australia, che sono stati esperienze intense e trasformative, sento il bisogno di fermarmi un attimo e ascoltare cosa ho da dire adesso, con il cuore che porto oggi, non più quello di ieri. Sto lavorando a nuove composizioni, perché la musica per me è sempre un viaggio interiore: ogni progetto nasce da un’urgenza emotiva, da qualcosa che ha bisogno di essere trasformato in suono. Questa volta sento che le note che stanno nascendo hanno una luce diversa, più matura, forse anche più libera. Dopo tutto quello che ho vissuto e raccontato, la mia musica si è spogliata di ogni maschera, e quello che verrà sarà qualcosa di molto vero, molto essenziale.
19. Ti piacerebbe portare questo libro anche nelle scuole, nei teatri, nei centri antiviolenza, per avviare un dialogo con le nuove generazioni?
Sì, mi piacerebbe profondamente. Anzi, lo sento quasi come un dovere morale e umano. Questo libro non è nato solo per raccontare una storia personale, ma per accendere un dialogo, rompere il silenzio, creare consapevolezza, soprattutto tra chi può ancora scegliere, capire, cambiare le cose prima che sia troppo tardi.
Portarlo nelle scuole significherebbe incontrare i ragazzi e le ragazze in un momento fondamentale della loro crescita, quando si costruisce l’idea dell’amore, del rispetto, della libertà. Significherebbe dire loro che l’amore non è possesso, che il controllo non è protezione, che la paura non è mai un segno di amore, e che è possibile dire “no”, chiedere aiuto, riconoscere i segnali, ascoltare le proprie emozioni.
Nei teatri, nei centri antiviolenza, in ogni luogo dove si costruisce cultura e comunità, questo libro potrebbe diventare un ponte: tra chi ha vissuto storie simili alla mia e chi non sa ancora come raccontarle, tra chi ascolta e chi non è mai stato ascoltato. Credo che la prevenzione nasca dalla conoscenza e dalla vicinanza, e per questo sogno un percorso che porti questa testimonianza in luoghi vivi, dove possa davvero fare la differenza. Se anche solo una persona, dopo avermi ascoltata, troverà il coraggio di uscire dal silenzio, allora tutto questo avrà avuto un senso profondo.
L'articolo Intervista a Giuseppina Torre, “Un PIANO per RINASCERE. La mia storia dal vivo” proviene da imusicfun.