Intervista al produttore Dj Vortex: “Ho suonato negli Stati Uniti perché volevano respirare il mio stile. Il mercato discografico oggi? C’è un’omologazione totale della musica”
Soundsblog incontra il produttore romano Dj Vortex, che racconta i dettagli inediti sulla sua carriera e sui suoi progetti.

DJ e produttore per oltre vent’anni, Dj Vortex ha portato il suo stile nei migliori club europei, diventando in seguito un produttore di fama mondiale nella scena techno. Dal 1997 è il fiore all’occhiello della Stik Records, ma anche anticipatore del fenomeno hardstyle. Negli anni si è esibito in diversi posti del mondo toccando soprattutto Stati Uniti, Canada, Colombia, Olanda, Germania, Svizzera, Spagna, Belgio, Polonia, Inghilterra, Danimarca, Slovenia, Francia. Nel 2010, Vortex inoltre ha creato l’etichetta V-Core Records per dare vita al suo nuovo progetto Vextor, che ha subito catturato l’attenzione con la sua prima uscita: Scream. In questa intervista a Soundsblog, racconta le tappe più importanti della sua carriera e l’evoluzione che il mondo della discografia ha avuto nel corso degli anni.
Sei attivo nel mondo musicale dal 1994, anno in cui ha iniziato a muovere i primi passi in questo settore. Cosa è cambiato da allora? Quanto il tuo stile si è evoluto?
Il mondo musicale è cambiato totalmente, perché prima c’era il “clubbing” che ora non c’è più. Prima si andava nello stesso locale ogni weekend, dove c’era lo stesso dj e la stessa musica. Era un modo per ritrovarsi e per creare un’identità collettiva. Ora questo non c’è più e si guarda soprattutto all’evento, magari per via del tipo di comunicazione che c’è oggi e anche perché si sono accorciate le distanze. Noi abbiamo vissuto questa metamorfosi con tanti ragazzi che preferivano non andare a ballare ogni sabato in zona, bensì ogni due mesi ad un Festival in Olanda, Germania o Spagna. Anche i locali in Italia si sono adeguati al mercato, e lo stesso è successo con il concetto di musica.
In passato si parlava di elettronica, house e techno e questi nomi abbracciavano dei macrogeneri. Adesso ci sono invece tantissimi sottogeneri con delle differenze minime. C’è un’omologazione totale della musica.
Se si vuole emergere nel panorama musicale, quali sono le difficoltà che ora si riscontrano?
C’è la crisi discografica ma l’offerta musicale è aumentata vertiginosamente. In passato bisognava convincere un discografico a investire su di sé stampando dei vinili o supporti fisici; ora c’è il mercato digitale e, se non si trova un’etichetta, si può far uscire il disco per conto proprio. Per emergere si ricorre a tanti elementi, come ad esempio i social che hanno ormai un’importanza fondamentale. Bisognerebbe avere un qualcosa in più, oltre al semplice essere Dj o produrre, che dia la possibilità di creare sinergie.
A cosa ti sei ispirato per il nome Vortex? Quanto questo nome d’arte ti è servito per farti spazio nell’ambito discografico?
Ho scelto il nome per via dello stile eclettico; io ero inoltre molto amico di una band rock – Cyclone – e accompagnavo loro anche ai concerti. Mi sono ispirato – tra le altre cose – alla canzone Vortice degli Skiantos, che i miei amici mi cantavano spesso scherzando. Un giorno ho organizzato una serata in un locale romano e serviva un nome: abbiamo quindi scelto Vortex.
Nel 2010 hai creato l’etichetta V-Core Records. Qualche retroscena sulla sua nascita? Dov’è nata l’idea?
Quella è stata una scelta abbastanza naturale; era un progetto nuovo e ho creato questo prodotto che potesse produrre musica hardcore; il nome è un anagramma di Vortex. Ho deciso di provare questa nuova strada a livello artistico ma anche a livello di produzione.
Sei entrato nella classifica dei migliori Dj al mondo. Con questo primato hai sentito il peso della responsabilità? Come hai affrontato negli anni il riscontro positivo arrivato da parte del pubblico?
Il progetto Dj Vortex mi ha portato a girare il mondo e suonare in America, Ghana, Colombia, Europa e in tanti posti in Italia. Per me è stato un po’ strano, perché a volte succede che si entra nel circuito per un disco fatto uno o due anni prima. Il mercato non è così immediato e a volte non basta fare un bel disco. Forse si sente la responsabilità, ma nemmeno troppo, perché si arriva a raggiungere un certo mercato e si va avanti su quella strada. Più che responsabilizzarmi, mi ha gratificato, perché mi ha fatto capire di essere sul percorso giusto.
Quali pensi che siano le differenze tra il mondo discografico in Italia e nel mondo?
La musica è diventata talmente omologata che finisce per diventare quasi localizzata. Io faccio musica hardstyle, che è un filone che viene apprezzato soprattutto in Olanda e Germania, ma quando mi hanno chiamato a suonare negli Stati Uniti è stato perché loro volevano respirare il mio stile. Per loro è totalmente diverso. Non è perché io ho fatto un prodotto adatto al loro mercato, ma perché loro vogliono assaporare – per una volta – quel mercato di cui si sono accorti in pochissimi. Questo è un po’ quello che è successo a Il Volo ad esempio: loro sono andati negli States perché gli americani avevano voglia di assaporare il loro stile.
In Europa riescono tra l’altro a organizzare dei grandi festival, soprattutto perché non c’è una discriminazione basata sull’età. In Italia, nei locali in cui vanno i 18enni non vanno i 25enni, e dove vanno i 25enni non vanno i 40enni. Nel Nord Europa si vedono invece ragazzini che ballano insieme a coloro che hanno la mia età. Proprio grazie a questo loro fanno i numeri veri.
Hai qualche evento in programma nei prossimi mesi? Futuri progetti?
Tra i futuri progetti c’è sempre quello di fare musica. Ci sono stati dei grandi eventi appena terminati, che sono stati dei trentennali di locali che hanno fatto la storia di Roma. C’è stato uno nella Discoteca Remember Club 6 e un altro nella Discoteca Hollywood. C’erano circa 4000 persone ed è stato un momento davvero importante per l’Italia ma soprattutto per Roma, che viveva con questi numeri negli anni ’90, fin quando il mercato non cambiasse totalmente.