Fabri Fibra: “Il rap non è mainstream, è ferita aperta. E io continuo a raccontarla”
Dopo oltre vent’anni di carriera, Fabri Fibra torna con un nuovo album – l’undicesimo – e lo fa con la stessa urgenza creativa degli inizi L'articolo Fabri Fibra: “Il rap non è mainstream, è ferita aperta. E io continuo a raccontarla” proviene da imusicfun.

Dopo oltre vent’anni di carriera, Fabri Fibra torna con un nuovo album – l’undicesimo – e lo fa con la stessa urgenza creativa degli inizi. In un’intervista a Fanpage, il rapper riflette sulla sua traiettoria artistica, sulla scena rap italiana di oggi e sul senso profondo di fare musica in un mondo che sembra cambiato, ma in fondo no.
«Non ho mai pensato a cosa avrei fatto a 50 anni, la musica mi ha sempre preso tutto», racconta Fibra. «Sono stato due anni in studio per questo disco e non me ne sono accorto. Poi esci e ti rendi conto che sei due anni più grande. Ma continuo a raccontare quello che vivo, quello che sento. È sempre stato così».
Fabri Fibra è consapevole di appartenere alla prima generazione di rapper italiani. Una generazione cresciuta nell’underground e che ha visto il rap diventare centrale nel panorama musicale nazionale. «Non pensavo che questa musica avrebbe preso così tanto spazio, vincendo su tutto. Ma è successo perché il rap riflette meglio di ogni altro genere i tempi che viviamo: può essere inclusivo, emotivo, crudo, perfino capitalista», spiega.
Secondo il rapper, oggi il rap è un mondo costruito su più livelli: social, streaming, moda, club. «È un castello di carta: togline uno e crolla tutto», dice. Ed è proprio in questo contesto che collabora con Tredici Pietro in Che gusto c’è, un brano che rivendica l’urgenza di dire qualcosa di autentico, in un’industria in cui, secondo Fibra, “siamo tutti cantanti ma non ci sono canzoni”.
Il lavoro è un tema ricorrente nei testi di Fibra, da Rap in guerra a Che gusto c’è: «Il lavoro ordinario non fa per me, sono stato costruito male. Ho provato, ma sentivo il bisogno di esprimermi, anche se non so esattamente cosa». Per lui fare musica significa essere vivo, pur consapevole che «a volte è anche peggio di un lavoro ordinario: ansia, insonnia, paura di sbagliare». Eppure, la musica resta l’unico posto dove sente di appartenere.
Quando gli si chiede se lo status conquistato lo protegge dall’ansia, risponde netto: «Se pensassi “sono Fibra, posso prendermela comoda”, sarei un malato di mente». Il catalogo – ammette – ha senso solo se si continua a scrivere, a fare dischi, a salire sul palco. «Quando ho iniziato pensavo: faccio un disco, un live e poi basta. Ma non avevo capito che quello è solo l’inizio: poi c’è la competizione, il confronto, l’abisso».
E questo abisso – quello del “non basta mai” – è ciò che lo ha spinto a migliorarsi, a mettersi in gioco anche con artisti pop e autori come Davide Petrella, «il numero uno in quel mondo», come lo definisce. «Se porto le mie strofe scritte in studio con i nomi che vincono Sanremo, allora vuol dire che sto facendo bene».
Per Fibra il rap in Italia continua a essere qualcosa di “non decodificabile”, perché «il rap è una musica senza regole e l’Italia è un paese dove si vive incastrati nelle regole». È questa frattura che spiega l’incomprensione e la distanza tra il rap e il mainstream. «La canzone italiana ci mette un cerotto a forma di cuore sulla ferita, il rap invece ci entra dentro. È di rottura».
Guardando alla scena attuale, Fibra osserva come il linguaggio del rap sia cambiato: «Una volta una rima la sviluppavi in 16 barre, oggi una frase come “sono rock ma non faccio rock” basta da sola. Si va avanti veloci, tutto è più istantaneo, più semplice». Ma per lui, una canzone ha valore solo se nasce da un’urgenza reale, non per seguire la moda. «Fare una canzone vuol dire avere qualcosa da dire, non usare una formula per vendere».
Dal dissenso frontale dei primi album a una scrittura più personale, la parabola di Fibra riflette l’evoluzione del suo sguardo sul mondo. «Mr. Simpatia, Tradimento, Bugiardo: sono stati l’11 settembre della musica italiana. Attaccavo tutto: la famiglia, il lavoro, la religione. Poi ho capito che avevo esaurito i nemici, e ho iniziato a scavare dentro di me».
Anche il successo di un brano come Stavo pensando a te nasce da questa svolta. «Non avevo mai affrontato il lato sentimentale. Ma ho lasciato così tanti Fibra alle spalle che oggi ogni fan ne vuole uno diverso: quello provocatore, quello introspettivo, quello romantico. Ma è sempre rap. Non avrei mai potuto ripetere la stessa formula».
A chi lo ascolta da vent’anni e a chi, quindicenne, oggi si chiede “Fibra chi è?”, il rapper risponde con la stessa coerenza che ha sempre contraddistinto il suo percorso: «Il fatto che io possa dire delle cose in un disco e che ci sia qualcuno ad ascoltarle è il mio successo più grande. Tutto il resto – il nome, i live, il catalogo – sparisce appena smetti. Ma le parole restano».
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