Sirens – La recensione della nuova miniserie Netflix che è un viaggio intricato nei rapporti umani
ATTENZIONE: nell’articolo seguente possono essere presenti spoiler su Sirens. È uscita lo scorso 22 maggio una nuova miniserie targata Netflix. Tratta dall’opera teatrale Elemeno Pea, Sirens è un articolato viaggio all’interno dei rapporti umani, tra verità celate, dinamiche familiari complesse e il peso delle scelte che ci definiscono. La serie, adattata per lo schermo da… Leggi di più »Sirens – La recensione della nuova miniserie Netflix che è un viaggio intricato nei rapporti umani The post Sirens – La recensione della nuova miniserie Netflix che è un viaggio intricato nei rapporti umani appeared first on Hall of Series.

ATTENZIONE: nell’articolo seguente possono essere presenti spoiler su Sirens.
È uscita lo scorso 22 maggio una nuova miniserie targata Netflix. Tratta dall’opera teatrale Elemeno Pea, Sirens è un articolato viaggio all’interno dei rapporti umani, tra verità celate, dinamiche familiari complesse e il peso delle scelte che ci definiscono.
La serie, adattata per lo schermo da Molly Smith Metzler (già apprezzata autrice di Maid, anch’essa su Netflix), porta sullo schermo una storia drammatica, surreale. A tratti persino oscura. Molly Metzler, nota per la sua grande empatia nel raccontare personaggi femminili imperfetti, conferma il suo sguarto attento sulle questioni di classe e di identità, immergendoci in un ambiente dorato e illusorio: un’isola del New England dove l’apparenza conta più della sostanza e dove ogni relazione sembra fondata su un equilibrio precario.
Sirens: la trama
La narrazione si concentra su due sorelle, Devon e Simone, le cui vite sono ormai distanti non solo geograficamente, ma anche emotivamente. Devon, una donna alle prese con diverse dipendenze e un’esistenza precaria, chiede disperatamente aiuto alla sorella. È finita nei guai con la legge per l’ennesima volta e non è più in grado di badare al padre, affetto da demenza. Simone, però, si nega rifiutando di risponderle e inviandole un elegante cesto di frutta. Un gesto che per Devon diventa simbolo di abbandono e menefreghismo. E che la porta a partire verso l’isola dove lavora Simone, decisa a riportarla alla realtà. E magari anche a casa.
Sull’isola, però, Devon trova qualcosa che va ben oltre le sue aspettative. Un mondo affascinante e inquietante al tempo stesso, dominato dalla misteriosa Michaela, per gli amici Kiki.
Quello che inizia come un tentativo di riconnessione familiare si trasforma presto in un confronto tra mondi diversi: il caos emotivo di Devon, la metamorfosi sociale di Simone e il controllo quasi totale esercitato da Kiki, figura enigmatica e manipolatrice che sembra governare ogni aspetto della vita sull’isola. Tra tensioni psicologiche, ironia tagliente e un velo di mistero che aleggia per tutta la serie, Sirens intesse una trama ricca di strati, in cui nulla è mai davvero ciò che sembra.
Personaggi complessi, interpretazioni intense
Una delle maggiori forze di Sirens risiede nei suoi personaggi. Donne imperfette, segnate da traumi, ambizioni e scelte radicali, che si muovono in un ambiente apparentemente perfetto ma emotivamente minato. Tre figure centrali intorno alle quali ruota l’intera narrazione, ognuna con il proprio carico di dolore, ambiguità e ricerca di identità.
Devon: la sincerità

Devon è la sorella maggiore, quella che non ha mai smesso di combattere. Anche quando non aveva più niente per cui farlo. Interpretata con intensità e vulnerabilità da Meghann Fahy, Devon arriva sull’isola come un uragano: disordinata, alcolizzata, emotivamente instabile, ma con una schiettezza disarmante. È chiaramente fuori posto tra gli abiti pastello e le cene di gala, ma è anche l’unica a vedere con chiarezza ciò che le altre fingono di ignorare.
Meghann Fahy, già apprezzata in The White Lotus, offre una prova ancora più corposa e sfumata. Non c’è traccia del glamour o della compostezza dei suoi ruoli precedenti: Devon è sporca, arrabbiata, piena di difetti, eppure impossibile da non capire. Dietro l’alcolismo e i comportamenti autodistruttivi si cela una donna che ha sacrificato la sua giovinezza per prendersi cura della famiglia, e che ora cerca solo un po’ di sostegno. La sua irruzione nell’esistenza dorata di Simone funge da detonatore narrativo, ma anche da richiamo emotivo: è lei a spingere lo spettatore a chiedersi cosa sia davvero importante nella vita.
Simone: la metamorfosi
Se Devon è caos, Simone è controllo. Apparentemente perfetta, impeccabile nel suo ruolo di assistente personale di Kiki, Simone sembra aver trovato la sua nicchia nell’alta società. Ma dietro il look curatissimo, i sorrisi smaglianti e l’atteggiamento servizievole, si nasconde una ragazza tremendamente fragile e in perenne in fuga da sé stessa.
Milly Alcock, nota al grande pubblico per House of the Dragon, conferma di essere un’attrice estremamente versatile. Simone non è semplicemente una vittima né una traditrice: è una donna che ha rinnegato il proprio passato per costruirsi un futuro nuovo, quasi artificiale. Il suo rapporto con Devon è fatto di tensione, rancore e affetto represso. Una miscela pericolosa che detona negli intensi scontri verbali tra le due sorelle, veri momenti clou della serie.
L’attrice riesce a rendere visibili le crepe sotto la superficie: un gesto nervoso, uno sguardo perso, una frase detta troppo in fretta. Simone non è felice, non è libera, ma non sa neanche più chi sarebbe senza il mondo che si è costruita. La sua evoluzione lungo i cinque episodi è forse la più radicale, e Milly Alcock accompagna ogni passo con delicatezza e precisione emotiva.
Michaela: il magnetismo
E poi c’è Michaela, il cuore oscuro e magnetico della serie. Julianne Moore interpreta con maestria una figura enigmatica, capace di esercitare un controllo totale su chi le sta intorno, senza mai urlare, senza (quasi) mai perdere il controllo. Kiki non è semplicemente una ricca eccentrica né una leader di setta: è qualcosa di più sfuggente, più pericoloso.
L’attrice costruisce il personaggio con una serie di microespressioni, toni di voce calibrati, silenzi significativi. Il suo sorriso è plastico, il suo sguardo sempre leggermente distaccato, come se il mondo fosse il suo personale esperimento sociologico. Con Kiki, Julianne Moore interpretare una donna che vive in un contesto privilegiato ma non è affatto libera. Anzi, è intrappolata in un ruolo che sembra esserle stato cucito addosso.
Il rapporto tra Kiki e Simone è forse il più interessante della serie: non è semplice manipolazione, né mero affetto materno. C’è una componente quasi psicosessuale, una dipendenza reciproca, un bisogno di completarsi a vicenda. Eppure, Kiki resta sempre un passo indietro, mai completamente rivelata, mai interamente buona o cattiva. Julianne Moore ci tiene sul filo del dubbio fino alla fine, e questo è uno dei tanti meriti della sua interpretazione.
Sirens: un mix di toni ambizioso e stratificato

Quello che colpisce fin da subito di Sirens è la sua capacità di muoversi con agilità tra toni apparentemente inconciliabili. Una commedia leggera e tagliente si scontra con un dramma psicologico denso di tensione, mentre nell’ombra si insinua una sensazione di mistero, quasi soprannaturale, che non abbandona mai del tutto. Non è facile far convivere satira sociale, confronti familiari strazianti e un’atmosfera vagamente inquietante. Eppure Sirens ci riesce, per lo più con eleganza, altre volte con una certa goffaggine, ma sempre tenendo lo spettatore sul filo dell’attenzione.
La componente comica, per esempio, emerge soprattutto attraverso lo staff domestico, che osserva con sarcasmo le stravaganze dei padroni di casa. Le chat di gruppo tra i collaboratori di Kiki diventano vere e proprie bolle di ironia, dove si commentano con malcelato disprezzo il comportamento ossequioso di Simone. È un modo intelligente per smorzare la tensione emotiva, ma anche un efficace strumento di critica sociale: un’occhiata irriverente su un mondo che si prende troppo sul serio, dove ogni dettaglio è studiato per apparire perfetto, senza mai chiedersi se lo sia davvero.
Tra dolore, identità e manipolazione
Ma è quando la telecamera si concentra su Devon, Simone e Michaela che la serie cambia registro. Qui non c’è più spazio per il riso: gli sguardi si fanno pesanti, i silenzi carichi di significati, e i dialoghi si trasformano in veri e propri duelli emotivi. Sono scene che scavano a fondo nel dolore delle persone, nei loro sensi di colpa, nelle bugie che si raccontano per sopravvivere.
ll rapporto tra le due sorelle, in particolare, è rappresentato con crudezza e onestà: niente frasi sdolcinate, nessun sentimentalismo gratuito. Solo verità scomode, rancore represso, e quel tipo d’amore complicato che si mescola a senso di colpa e rimpianto. Un amore che affonda le radici in un trauma infantile mai elaborato, in un abbandono che ha segnato entrambe, facendole diventare donne diverse, lontane, ma profondamente intrecciate l’una all’altra.
E poi c’è Kiki, figura enigmatica e affascinante, che sembra fluttuare tra realtà e illusione. Non è semplicemente una ricca eccentrica: è qualcosa di più sfuggente, di più moderno. Incarna una forma di potere sottile, fatto di apparenza, mito e controllo psicologico. Con il suo sorriso e i suoi rituali quasi teatrali, costruisce attorno a sé un universo parallelo, una sorta di setta soft dove il lusso maschera il vuoto, e dove chi entra deve rinunciare a una parte di sé per appartenerle.
In questo senso, Sirens tocca un tema molto contemporaneo: la costruzione dell’identità come scelta obbligata, soprattutto per chi proviene da contesti marginali. Quanto sei disposto a sacrificare per integrarti in un sistema che non ti appartiene? Fino a che punto puoi reinventarti, prima di perderti del tutto?
Così, tra ironia pungente, drammi interiori e un alone di mistero che avvolge ogni relazione, Sirens si rivela ben più di una semplice storia di conflitti familiari o di satira sull’alta società. È uno studio sulle identità negate, ricostruite, rubate. Un racconto su quanto sia difficile uscire da un ruolo, specialmente quando quel ruolo ti ha salvato la vita.
Sirens: un’estetica curata e una regia atmosferica
La resa visiva di Sirens è uno dei suoi punti più alti. La regia riesce a costruire un’atmosfera ricca di simbolismi, dove ogni dettaglio sembra voler raccontare qualcosa di più profondo. L’utilizzo delle location marine, con l’isola immersa nel silenzio e circondata da scogliere suggestive, contribuisce a creare quel senso di isolamento emotivo che avvolge i personaggi come un velo invisibile.
L’estetica richiama quella di certi film indie contemporanei, con una palette cromatica dominata da colori pastello e tonalità neutre, che contrastano con i look più scuri e grintosi di Devon. Gli interni della villa, perfettamente decorati, quasi troppo ordinati, sembrano riflettere il controllo esercitato da Michaela/Kiki, mentre la fotografia gioca spesso con inquadrature ampie, specchi e finestre che amplificano il senso di chiusura e ossessione.
Un ruolo chiave lo giocano anche i costumi, che non sono mai casuali: ogni abito indossato da Simone o da Kiki è studiato per comunicare potere, status o sottomissione, a seconda del contesto. Persino i gesti, un tocco lieve sul una spalla o uno sguardo riflesso nello specchio, vengono enfatizzati con un linguaggio visivo preciso, quasi teatrale, che rende omaggio alle origini sceniche dell’opera originale.
È tutto oro quello che luccica?

Naturalmente no. Non siamo di fronte a un capolavoro. Ci sono chiaramente delle criticità. Sirens è una miniserie interessante, ricca di atmosfera e interpretazioni memorabili, ma non è immune da qualche limite. Ci sono momenti in cui la costruzione narrativa sembra oscillare tra intenti diversi, senza sempre trovare un equilibrio stabile. Il risultato è una serie che cattura e coinvolge, sì, ma talvolta lascia intravedere delle crepe.
Il costante cambio di registro, per esempio, non sempre risulta fluido. Alcune transizioni possono risultare brusche, soprattutto nei primi episodi rendendo faticoso allo spettatore comprendere quale sia la vera natura della storia che gli viene raccontata. Si tratta chiaramente di una scelta stilistica ben precisa, quasi un marchio di fabbrica della miniserie, che però non sempre riesce digeribile.
Un altro limite di Sirens riguarda alcuni personaggi secondari, che rimangono sullo sfondo senza mai emergere con chiarezza. Tra questi, chiaramente, c’è Peter, interpretato da Kevin Bacon (protagonista su Prime Video della non rinnovata prima stagione di The Bondsman). Il marito di Michaela/Kiki, appare poco più di uno stereotipo di uomo d’affari annoiato, privo di una sua reale complessità emotiva o psicologica. La sua presenza sembra servire più come cornice al potere esercitato dalla moglie che come figura autonoma.
Anche Ethan, il fidanzato di Simone interpretato da Glenn Howerton, risulta poco sviluppato: sebbene abbia alcune battute esilaranti e un ruolo nella dinamica di potere dell’isola, non riesce mai a imporsi come personaggio realmente credibile o interessante. Si ha l’impressione che entrambi i personaggi maschili siano stati creati più come contrappesi narrativi che come individui dotati di una propria volontà o evoluzione.
Sirens: una piacevole sorpresa
Sirens non è perfetta ma tra i suoi pregi ha anche quello di essere corta. In un panorama televisivo spesso dilatato oltre ogni necessità, questa miniserie di soli cinque episodi riesce a raccontare molto senza mai perdere di vista il proprio obiettivo: scavare dentro le relazioni umane, tra i loro silenzi, le bugie e i desideri nascosti. Non si tratta di un capolavoro né di una rivoluzione narrativa, ma di una storia ben recitata, intelligentemente scritta e visivamente curata, che sa tenere lo spettatore incollato allo schermo fino all’ultima scena.
Vale la pena di farsi sedurre, puntata dopo puntata. Fino alla fine.
The post Sirens – La recensione della nuova miniserie Netflix che è un viaggio intricato nei rapporti umani appeared first on Hall of Series.