A Thoc l’evoluzione dei contratti d’hotel

Non c’è una risposta univoca nella scelta di affiliazione degli hotel: “Tutto dipende dal modello di business, dalla struttura dell’hotel e dagli obiettivi imprenditoriali che ci si prefigge di raggiungere”. In questa intervista ad AboutHotel l’avvocato Massimiliano Macaione, partner di Gop che sarà presente all’evento Thoc in programma a Roma il 10 giugno, esamina lo ... L'articolo A Thoc l’evoluzione dei contratti d’hotel proviene da GuidaViaggi.

May 28, 2025 - 09:45
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A Thoc l’evoluzione dei contratti d’hotel

Non c’è una risposta univoca nella scelta di affiliazione degli hotel: “Tutto dipende dal modello di business, dalla struttura dell’hotel e dagli obiettivi imprenditoriali che ci si prefigge di raggiungere”. In questa intervista ad AboutHotel l’avvocato Massimiliano Macaione, partner di Gop che sarà presente all’evento Thoc in programma a Roma il 10 giugno, esamina lo stato dell’arte del settore alberghiero, i cluster più richiesti e l’evoluzione della contrattualistica.

AH: Branded, unbranded e white label: come si sposano con l’infrastruttura alberghiera italiana? Quali i rispettivi vantaggi e gli aspetti legali da tenere a mente per una corretta scelta?

“La scelta tra branded, unbranded e white label dipende molto dal posizionamento strategico dell’hotel, dal mercato di riferimento e dal grado di autonomia che si desidera mantenere nella gestione. Branded significa entrare a far parte di una catena alberghiera, con tutti i vantaggi legati al plug-in nei loro sistemi di prenotazione, distribuzione, Crm (customer relationship management), marketing e revenue management. Questo garantisce visibilità immediata e accesso a un bacino consolidato di clienti fidelizzati, ma comporta anche il rispetto di rigidi brand standard e costi di affiliazione. Dal punto di vista legale, è cruciale valutare attentamente le clausole contrattuali relative a brand usage, penali, risoluzione e durata dell’accordo. Unbranded, invece, offre un’autonomia piena: l’albergatore può decidere liberamente politiche tariffarie, branding e strategie di marketing. Tuttavia, deve costruire da zero il proprio posizionamento sul mercato e dotarsi di strumenti propri per la distribuzione, il marketing e il revenue management, tra gli altri. Legalmente, c’è più flessibilità, ma anche la responsabilità diretta su tutti gli aspetti operativi e normativi. White label rappresenta un ibrido interessante, per certi versi intermedio tra i primi due modelli sopra evidenziati: l’hotel viene gestito da un operatore professionale, ma il marchio rimane neutro o personalizzabile. È un’opzione utile per chi desidera qualità gestionale senza vincoli di brand, ma richiede attenzione alle clausole di governance e alla suddivisione delle responsabilità contrattuali tra proprietà e gestore. In sintesi, non esiste una scelta “giusta” in termini assoluti: tutto dipende dal modello di business, dalla struttura dell’hotel e dagli obiettivi imprenditoriali che ci si prefigge di raggiungere”.

AH: Qual è il sentiment per gli investimenti real estate nel settore alberghiero in Italia? Ci si può attendere uno sprint in coda d’anno?

“Il sentiment verso il real estate alberghiero in Italia è stato fortemente influenzato da un evento spartiacque: il 2 aprile 2025, data del cosiddetto “Liberation Day” proclamato da Trump, che ha segnato l’avvio di una nuova stagione di dazi e tensioni commerciali globali. Fino a quel momento, lo scenario era decisamente favorevole: tassi d’interesse in calo, crescente appetito per gli asset alberghieri e dunque un rinnovato interesse degli investitori istituzionali per l’hospitality, soprattutto in chiave lifestyle e luxury. L’Italia, con la sua attrattività turistica strutturale, si stava confermando tra i mercati più promettenti in Europa. Tuttavia, il clima è cambiato repentinamente: il ritorno del protezionismo ha generato e può continuare a generare incertezza, come dimostrato dalla corsa all’oro come bene rifugio e dall’impennata dell’indice di volatilità sui mercati. In questo contesto, molti investitori stanno adottando un atteggiamento attendista di “wait and see”, rallentando decisioni e riallocando capitali verso asset meno esposti al rischio geopolitico. Detto ciò, una ripresa resta possibile: se le tensioni commerciali si ridimensionano e si ristabilisce un quadro normativo e macroeconomico più stabile, il settore potrebbe beneficiare di un recupero nella parte finale dell’anno. In tal caso, gli asset alberghieri — soprattutto quelli in location primarie o con forte brand — potrebbero tornare ad attrarre capitali in cerca di rendimento e valorizzazione a medio-lungo termine”.

AH: Come sta andando l’attività M&A e quali le operazioni che si profilano all’orizzonte in campo internazionale, anche alla luce dell’effetto Trump che potrebbe indurre qualche fondo americano a cambiare rotta?

“In continuità con quanto detto sul sentiment degli investimenti, anche l’attività M&A nel settore hospitality sta vivendo una fase di assestamento, fortemente influenzata dall’“effetto Trump” e dal conseguente spostamento degli equilibri geopolitici ed economici. I grandi fondi americani — anticipando le tensioni commerciali e le possibili ricadute sul dollaro e sull’export — si sono già parzialmente riposizionati su Londra e stanno guardando con crescente interesse al continente europeo. L’Europa, e in particolare mercati dell’hospitality come Italia, Spagna e Francia, rappresenta una destinazione attraente per la diversificazione del portafoglio, soprattutto in un contesto di ritorno dell’asset class alberghiera tra le priorità di investimento. Tuttavia, c’è un tema chiave che sta rallentando il deal flow: l’asking price. Le aspettative dei venditori, in molti casi ancora ancorate ai valori pre-crisi o ai picchi del 2023–2024, faticano a incontrare le logiche di rendimento attuali dei buyer, che sono diventate più selettive e orientate al valore. Il risultato è un allungamento dei tempi di negoziazione e di chiusura delle operazioni. Come detto, all’orizzonte ci si può attendere un’accelerazione delle attività M&A nella seconda metà dell’anno, ma a condizione che si arrivi a un nuovo equilibrio tra domanda e offerta, e che il clima macroeconomico torni ad essere più prevedibile. In caso contrario, molte operazioni resteranno “in pipeline”, in attesa di un contesto più favorevole”.

AH: Quali i cluster che in Italia stanno rispondendo meglio e come vede l’equilibrio tra domanda e offerta?

“Nel panorama italiano, a sorprendere positivamente sono le secondary cities e alcune aree tradizionalmente meno centrali nel radar degli investitori internazionali. Tra queste spiccano Napoli, Palermo, la Sicilia e la Puglia, territori che stanno vivendo un momento di grande fermento, grazie a una domanda turistica in forte crescita, sia domestica che internazionale. Questi cluster beneficiano di tre fattori chiave: la riscoperta dell’autenticità da parte dei viaggiatori post-pandemia, una qualità della vita percepita come elevata e un costo d’ingresso (ancora) competitivo rispetto alle grandi piazze come Roma, Milano, Firenze o Venezia. A ciò si aggiungono progetti di rigenerazione urbana e un interesse crescente da parte di operatori lifestyle e boutique, che trovano in questi territori il terreno ideale per concept innovativi. Dal lato dell’offerta, tuttavia, resta ancora uno sbilanciamento: l’infrastruttura ricettiva in molte di queste aree è frammentata e spesso non allineata agli standard attesi dal viaggiatore internazionale evoluto. Questo crea un’opportunità interessante per chi intende investire in riqualificazione, branding e gestione professionale. In sintesi, questi cluster stanno rispondendo bene, ma per consolidare la crescita serve accompagnare la domanda con un’offerta sempre più qualificata e strutturata”.

AH: Come si svilupperà la contrattualistica alberghiera nel breve-medio termine?

“Nel breve-medio termine, la contrattualistica alberghiera in Italia — e più in generale in Europa — si sta orientando verso una maggiore flessibilità strutturale e una differenziazione per segmento di mercato. Da un lato, si prevede un crescente ricorso ai contratti di franchising, soprattutto da parte di proprietà indipendenti che vogliono agganciarsi a un brand forte per beneficiare della sua forza distributiva e reputazionale, mantenendo però una certa autonomia operativa. Questo modello, già in crescita negli ultimi anni, è destinato a consolidarsi ulteriormente nei settori midscale e upscale. Dall’altro lato, nel segmento luxury e ultra-luxury la tendenza dominante continuerà a restare quella dei management agreement: formule che consentono ai grandi brand internazionali di supervisionare e dirigere l’operatività delle strutture in prima persona, garantendo alti standard di servizio e valorizzazione del marchio, mentre la proprietà resta nelle mani dell’investitore. Questo modello è particolarmente apprezzato da fondi e family office alla ricerca di una gestione professionale e di lungo periodo, ma senza dismettere il controllo dell’asset. In entrambi i casi, ci si attende una contrattualistica più sofisticata, con clausole personalizzate su temi come Esg, digitalizzazione, performance guarantee ed exit strategy, a conferma di un settore sempre più maturo e orientato a logiche finanziarie internazionali”.

Laura Dominici

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