TvBoy: “Viaggiare sblocca la creatività”
Con colori sgargianti, in stile neo pop, e messaggi potenti, attraversa muri e confini, li trasforma, a volte li abbatte. Lo street artist TvBoy, tag di Salvatore Benintende, ha fatto del viaggio la vera cifra della sua arte, lasciando tracce di sé in numerosi luoghi del mondo, utilizzando i muri come veicoli di messaggi politici e sociali. L'articolo TvBoy: “Viaggiare sblocca la creatività” sembra essere il primo su Dove Viaggi.

Con colori sgargianti, in stile neo pop, e messaggi potenti, attraversa muri e confini, li trasforma, a volte li abbatte. Lo street artist TvBoy, tag di Salvatore Benintende, ha fatto del viaggio la vera cifra della sua arte, lasciando tracce di sé in numerosi luoghi del mondo, utilizzando i muri come veicoli di messaggi politici e sociali. Nato a Palermo e cresciuto tra Milano e Barcellona, dove vive e lavora, è oggi uno dei nomi più riconosciuti della street art internazionale. Le sue opere, raccontano il nostro tempo con uno stile irriverente e profondamente impegnato. I suoi “baci impossibili” da Amor Populi, quello tra Salvini e Di Maio, a Kiss Me Before I Vote, in cui Donald Trump bacia Papa Francesco, hanno fatto il giro del mondo.
Nel 2023 il Mudec di Milano gli ha dedicato una mostra personale, riconoscendo la portata culturale del suo lavoro, che unisce attualità politica, cultura pop e riflessione sociale. Dal 22 maggio TvBoy torna a Milano con Omnia Vincit Amor, alla Galleria Deodato Arte, in un’esposizione che celebra l’amore come forza rivoluzionaria.
Le sue opere sono apparse in molte città in Italia e nel mondo. C’è un posto che l’ha ispirata più di altri?
«L’anno scorso ho fatto un tour in Europa e mi è piaciuto tantissimo realizzare i miei lavori per le strade delle grandi capitali europee: Parigi, Berlino, Lisbona, Vienna. A Vienna, per esempio, ho attualizzato il Bacio di Klimt – un’opera che mi ha sempre affascinato – inserendo l’elemento del selfie: la donna, mentre bacia l’amante, tiene in una mano il cellulare e riprende il momento. Però, se proprio devo scegliere una città che mi ha segnato profondamente è stata Kiev nel 2023 durante la guerra. Ho capito che la street art, oltre alla provocazione, a mettere in discussione i preconcetti, ha anche un ruolo sociale importante, quello di portare un messaggio di pace, una speranza dove non c’è. Intervenire su quei muri bruciati, segnati dai bombardamenti, è stato per me come avere una tela con un fondo già preparato, dove dovevo solo inserire il mio elemento per sovvertire e cercare di cambiare completamente il contesto».
Quanto conta il contesto urbano nel processo creativo? Sceglie prima il soggetto o il luogo?
«Più che un pittore, mi sento un comunicatore, quindi per me è importante il come, il dove, il quando, il perché. Di solito scelgo prima il luogo, che è quasi sempre legato ai viaggi che faccio per lavoro, oppure a volte decido proprio di andare in un posto di proposito per realizzare un’opera. Com’è successo a Roma, per la morte del papa. O quando avevo previsto di andare in Ucraina e mi ero preparato 15 idee che volevo realizzare, tutte legate ai bambini: un bambino che mette un fiore nel fucile, altri che giocano e disegnano simboli di pace… Quindi, nel mio processo creativo, di solito è importante prima il luogo, poi il soggetto, e infine anche il perché, cioè il messaggio che voglio trasmettere. A volte è la notizia a indirizzarmi, l’ordine dei fattori non cambia il risultato».
Capita anche che sia l’istinto a guidarla?
«L’istinto è una componente fondamentale, perché molto spesso se stai troppo a pensare le cose non le fai. Quando vado in un posto, non realizzo un unico murale, mi piace magari farne due o tre. Quindi alcuni soggetti sono il frutto di scelte istintive. Per esempio, uno dei baci che mi ha reso più noto è stato quello tra Salvini e Di Maio, nel 2018. Non era l’opera per cui mi ero mosso, l’avevo considerata quasi un extra, perché si vociferava di un possibile accordo tra loro. Invece ho avuto l’incredibile fortuna di averla realizzata la notte prima che firmassero l’accordo. Quindi sì, serve anche un po’ di… chiamalo istinto, chiamalo coraggio, una spinta insomma, quel tipo di energia lì».
Dagli esordi a Milano nei primi anni del 2000 a Barcellona, dove ormai risiede da anni, com’è cambiato il suo modo di fare arte?
«Milano è stata la città che mi ha permesso di studiare Design al Politecnico e lì sono entrato nella mia prima scena graffiti. È cambiato moltissimo da allora, nel senso che una volta era un movimento estremamente marginale, non considerato; i critici lo snobbavano e molti lo snobbano tuttora. Il feedback che ricevevo dipingendo per strada era quello dei vicini di casa che chiamavano la polizia o mandavano qualcuno per fermarci. Adesso, invece, la gente mi chiede un selfie o un autografo. La street art è stata sdoganata, non ha più quell’accezione vandalica che aveva all’inizio. Ogni tanto ho nostalgia del passato, però credo che sia anche importante che questo genere sia stato capito e accettato dal mondo dell’arte».
C’è un rapporto stretto tra viaggiare e street art. In cosa consiste per lei questo legame?
«Sì, sicuramente. Penso consista innanzitutto nella curiosità, perché quando viaggi e ti trovi in un luogo nuovo, tutto ti colpisce: torni un po’ fanciullo, ti lasci sorprendere dalle cose, spezzi la routine, e questa condizione stimola un sacco di idee. Quasi tutte le mie opere più belle le ho inventate grazie a un viaggio o al fatto di trovarmi in una nuova città, perché viaggiare ti sblocca la creatività: tutto è nuovo. Ed è anche bello, dopo, tornare a casa con una visione più larga e positiva».
Facciamo un esempio…
«Ho realizzato a Palermo, in piazza Marina, un ritratto di Falcone e, in via Lungarini, un ritratto di Paolo Borsellino. È stato un piacere, dopo che li avevano vandalizzati, tornare a restaurarli. La città di Palermo ha poi deciso di proteggerli con un plexiglass. All’inizio questa cosa mi era sembrata strana, però poi l’ho vista come un gesto di riconoscimento del valore delle opere e anche del contesto in cui erano state inserite: non erano state autorizzate, ma la città le aveva apprezzate così tanto da decidere di salvaguardarle. Ho trovato molto poetico che la vagabonda ed effimera street art possa a volte trovare protezione e una dimora fissa».
“La notte dona alla città un’energia diversa. Amo la città quando è silenziosa, quando sei l’unica persona in giro e hai la sensazione di poter commettere un delitto e farla franca”, ha detto Banksy in una rara intervista. È o è stato così anche per lei?
«Quando ho iniziato a fare street art, sì. Agivo di notte con le bombolette spray: non si vedevano bene i colori, i lavori non erano perfetti, perché col buio non hai una grande visibilità e devi andare veloce. Poi ho affinato un po’ la tecnica: ho iniziato a prepararli in studio, su carta, e a incollarli e finirli con qualche ritocco sul posto. A quel punto ho cambiato approccio: mi è venuta l’idea di operare di giorno, indossando una pettorina da operaio. Con la pettorina da operaio diventi invisibile, nessuno ti nota, al massimo ti fermano per chiederti indicazioni. E questo mi ha permesso anche di non vedere più come un “delitto” il mio lavoro. Cioè, Banksy lo ha detto ironicamente, ma per me la street art è un dono che l’artista fa alla città».
L’operazione più pericolosa e quella che non ha osato mettere in atto?
«La più pericolosa è stata andare a Kiev, svegliarsi una mattina sotto i bombardamenti. In quel momento ho realizzato con grande chiarezza la gravità della situazione, e di quanto fosse reale e drammatica. Quando sono tornato a casa, dieci giorni dopo, mi sono sentito la persona più fortunata del mondo. Invece, quella che non ho messo in atto è stata andare in Palestina. Mi avevano proposto un progetto, però ho sentito che non era il momento giusto. E proprio in quei giorni sono stati uccisi dei cooperanti di World Central Kitchen, che stavano trasportando cibo per i rifugiati. Un artista di street art si espone al rischio, ma deve anche saperlo controllare».
Sono più le volte che spera di abbellire un vecchio muro o quelle in cui vorrebbe abbatterlo con il suo messaggio?
«Picasso diceva che l’arte non è per decorare le pareti dei salotti, ma è un’arma di difesa. Ed effettivamente è così, anche se non sempre: a volte amo anche realizzare opere un po’ più leggere. Però, in generale, uso la mia arte come strumento di comunicazione sociale, più che in altro modo. Metaforicamente, i muri sono da abbattere, nel senso che dobbiamo superare le barriere che alcuni ci vogliono imporre».
Avvicinare mondi e persone lontanissime, armonizzare gli opposti e strappare magari un sorriso è la sua missione. Dove vorrebbe arrivare con il suo messaggio di pace, libertà, inclusione?
«Effettivamente il concetto che sta dietro a Omnia vincit Amor, la mostra che ho preparato a Milano con il mio team, è proprio quello degli opposti che si vedono diversi, ma in realtà non lo sono, perché siamo tutti parte della stessa tribù. Uso il bacio come metafora del dialogo, per far parlare persone che non si parlano. Perché se guardi le notizie, c’è sempre questa contrapposizione, la tendenza a irrigidirsi su visioni opposte del mondo… E poi alla fine scopri che non siamo così diversi come crediamo. Molti mi hanno definito “l’artista dei baci impossibili”, e quei baci volevano proprio dire questo: che sembrano impossibili, ma non lo sono. Perché in realtà, non siamo così distanti come pensiamo».
La mostra celebra il trionfo dell’amore. Per la locandina ha scelto l’opera Peace&Love, con un bacio tra due soldati nemici. Cosa vuole trasmettere oggi con questa parola che sembra essere diventata scomoda e radicale?
«È paradossale che una parola come Amore oggi sia considerata scomoda, perché dovrebbe essere esattamente il contrario. Però, purtroppo, vincono le politiche dell’odio, della contrapposizione, del nemico, della ricerca di qualcuno a cui dare la colpa. Io credo che, specialmente in questo momento, ci sia un bisogno urgente di questo messaggio».
Se potesse realizzare un murale in un luogo a lei sacro, dove sarebbe? E cosa o chi raffigurerebbe?
«Un luogo di culto per me è New York. Ci sono stato nel 2010 e ho realizzato alcuni interventi per strada, ma mi piacerebbe tornare. New York è la città dove è nato il movimento della street art, dove artisti come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat hanno fatto i loro primi graffiti. Dipingerei questi mostri sacri della graffiti art, per interpretarli e farli rivivere. Anche se, in realtà, non è il momento migliore, con le nuove politiche, c’è molta intolleranza verso l’arte di strada. Però, in un certo senso, questa sfida renderebbe il tutto ancora più affascinante».
Un itinerario di viaggio per ammirare i suoi murales sopravvissuti?
«Il murale all’aeroporto di Roma è uno dei pochi che so non potrà essere rimosso, perché è stato realizzato su commissione. Raffigura Leonardo da Vinci e la Monna Lisa come due turisti con trolley e biglietti pronti a partire per un viaggio. A Roma c’è anche l’immagine della partigiana che ho fatto per il 25 aprile in via Rasella. Poi andrei a Milano a vedere Omnia Vincit Amor, in via Tortona 56, sulla facciata del Mudec, dove ho tenuto la mia prima mostra in un museo. A Palermo ci sono quasi tutti i miei lavori: in piazza Marina, il ritratto di Falcone; in via Lungarini, quello di Borsellino; e vicino al mercato di Ballarò, il ritratto della cantante spagnola Rosalía, travestita da Santa Rosalia, patrona di Palermo. A Barcellona è rimasto qualcosa nel quartiere di Gràcia, dove periodicamente faccio un nuovo ritratto. L’ultimo è stato quello di Frida Kahlo, in cui cito una sua frase che dice: “Dove non puoi amare, non serve fermarti”. Di tutte le altre non ho notizie. Ogni tanto qualche follower mi segnala un’opera che è stata rovinata e quando posso, torno per restaurarla. È una parte del lavoro dello street artist: a volte bisogna fare un po’ di manutenzione».
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